La nuova regolamentazione del contenzioso previdenziale ed assistenziale
La nuova regolamentazione del contenzioso previdenziale ed assistenziale
LA NUOVA REGOLAMENTAZIONE DEL CONTENZIOSO PREVIDENZIALE ED ASSISTENZIALE
di Livio Lodi [fn]Articolo pubblicato su GUIDA E PRATICA LAVORO - IPSOA novembre 2011[/fn]
Già dirigente INPS, esperto in materia previdenziale ed autore di volumi ed articoli specialistici
L’art. 38, comma 1, del decreto legge 6 luglio 2011, n. 98, convertito in legge, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 15 luglio 2011, n. 111, ha operato una profonda revisione delle disposizioni in materia di contenzioso previdenziale e assistenziale.
Recita infatti il primo tratto del testo coordinato delle due norme che “Al fine di realizzare una maggiore economicità dell’azione amministrativa e favorire la piena operatività e trasparenza dei pagamenti, nonché deflazionare il contenzioso in materia previdenziale, di contenere la durata dei processi in materia previdenziale, nei termini di durata ragionevole dei processi, previsti ai sensi della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, ratificata ai sensi della legge 4 agosto 1955, n. 848:
a) i processi in materia previdenziale nei quali sia parte l’INPS, pendenti nel primo grado di giudizio alla data del 31 dicembre 2010, per i quali, a tale data, non sia intervenuta sentenza, il cui valore non superi complessivamente euro 500,00, si estinguono di diritto, con riconoscimento della pretesa economica a favore del ricorrente. L’estinzione è dichiarata con decreto dal giudice, anche d’ufficio. Per le spese del processo si applica l’articolo 310, quarto comma, del codice di procedura civile.
b) al codice di procedura civile sono apportate le seguenti modificazioni:
1) dopo l’articolo 445 è inserito il seguente:
«Art. 445-bis (Accertamento tecnico preventivo obbligatorio).
Nelle controversie in materia di invalidità civile, cecità civile, sordità civile, handicap e disabilità, nonché di pensione di inabilità e di assegno di invalidità, disciplinati dalla legge 12 giugno 1984, n. 222, chi intende proporre in giudizio domanda per il riconoscimento dei propri diritti presenta con ricorso al giudice competente ai sensi dell’articolo 442 codice di procedura civile, presso il Tribunale nel cui circondario risiede l’attore, istanza di accertamento tecnico per la verifica preventiva delle condizioni sanitarie legittimanti la pretesa fatta valere. Il giudice procede a norma dell’articolo 696-bis codice di procedura civile, in quanto compatibile nonché secondo le previsioni inerenti all’accertamento peritale di cui all’articolo 10, comma 6-bis, del decreto-legge 30 settembre 2005, n. 203, convertito, con modificazioni, dalla legge 2 dicembre 2005, n. 248, e all’articolo 195.”
I processi il cui valore non supera 500,00 euro (lettera a) della norma)
La lettera a) della nuova disposizione legislativa ha inteso cancellare con un autentico colpo di spugna tutte le pendenze in cui sia parte in causa l’INPS: non solo dunque quelle relative alla successiva lettera b), il cui campo di applicazione è limitato (lo vedremo più dettagliatamente in prosieguo) all’invalidità civile, alla cecità civile, alla sordità civile, all’handicap e disabilità, nonché alla pensione di inabilità e all’assegno di invalidità, ambedue disciplinati dalla legge 12 giugno 1984, n. 222, ma anche a quelle relative alle altre prestazioni previdenziali ed a quelle afferenti all’imposizione contributiva.
Le vertenze giudiziarie nelle quali siano coinvolti gli altri Enti previdenziali (ossia l’INPDAP, l’ENPALS, l’INPGI, ecc.) non rientrano di conseguenza nella sanatoria.
La principale finalità, esplicitamente dichiarata dalla norma medesima, è quella di smaltire il pesante arretrato accumulato nel corso degli anni passati: riteniamo che l’obiettivo potrà essere realizzato.
Particolari notazione meritano le vertenze relative ai contributi figurativi (da servizio militare, da apprendistato artigianale fino a tutto il 31 dicembre 2006, da malattia e maternità, da disoccupazione involontaria, ecc.): trattandosi di periodi di assicurazione il cui accreditamento è del tutto gratuito, vale a dire che i soggetti interessati non devono sostenere alcun onere, le azioni giudiziarie ad essi riferiti sembrerebbero dover essere integralmente ricomprese nel campo di applicazione della norma: sul punto bisognerà comunque attenderne l’interpretazione che sarà fornita dalle autorità amministrative e dalle successive prese di posizione di quelle giudiziarie.
Resta comunque fermo il fatto che le vertenze debbano risultare pendenti in primo grado di giudizio al 31 dicembre 2010 e che, sempre a tale data, non sia intervenuta la relativa sentenza.
Stante la perentoria formulazione della norma, si può assumere che le altre sentenze pendenti (quelle cioè di secondo grado ed i ricorsi per cassazione) non rientrino nella sanatoria.
Accertamento tecnico preventivo obbligatorio per le vertenze da invalidità (lettera b) del provvedimento): campo di applicazione oggettivo
Di fondamentale importanza si manifesta l’ambito oggettivo della norma, a cui si è ritenuto di dedicare un apposito paragrafo.
Una prima ed importantissima riflessione che si impone (l’argomento sarà peraltro ripreso anche successivamente) è quello dell’individuazione delle fattispecie assistenziali e previdenziali a cui applicare la nuova norma.
Per quanto concerne in particolare i trattamenti pensionistici, si osserva che le previsione legislativa si riferisce alle sole prestazioni collegate all’invalidità ed a prescindere dall’Ente erogante: rimangono pertanto esclusi dal campo di applicazione dell’art. 38, sia le altre forme pensionistiche (di vecchiaia, di anzianità, ai superstiti, ecc.), sia le assicurazioni sociali denominate, per usare una locuzione tanto cara all’INPS, “prestazioni minori”, ovvero “prestazioni non pensionistiche” (disoccupazione involontaria, malattia e maternità, assegno al nucleo familiare, ecc.).
Ma anche nel circoscritto ambito dei trattamenti invalidanti, si renderà necessario effettuare una ulteriore selezione, visto che la norma ne prevede l’applicazione relativamente alle sole prestazioni di cui agli artt. 1 e 2 della legge 12 giugno 1984, n. 222, le cui definizioni legali saranno fornite in prosieguo.
Un secondo motivo di meditazione consiste nella necessità di chiarire che le prestazioni per invalidità civile, cecità civile e sordomutismo, non devono (o per lo meno non dovrebbero) essere considerate pensioni in senso tecnico, dal momento che non derivano da eventi protetti da rapporti di assicurazione sociale: esse si dovrebbero invece qualificare, più appropriatamente, come “provvidenze” (così come appunto le definisce la stessa legge istitutiva), ancorchè corrisposte sotto forma di rendita mensile, vale a dire con le stesse cadenze temporali con le quali vengono erogare le pensioni vere e proprie, il che ingenera non poca confusione, anche nei confronti degli addetti ai lavori.
A tale riguardo vale la pena di segnalare che le prestazioni di cui si discorre, al compimento del sessantaciquesimo anno di età dei titolari, si trasformano in “assegni sociali” (prima dell’entrata in vigore dell’art. 3, comma 6, della legge 8 agosto 1995, n. 335, ossia a tutto il 31 dicembre 1995 i medesimi trattamenti si trasformavano in “pensioni sociali”): tale cambiamento di denominazione non modifica peraltro la natura della prestazione, i cui requisiti reddituali restano ancorati a quelli da cui ebbero l’originario riconoscimento, ossia quello avvenuto antecedente al compimento del raggiungimento dell’appena citato limite anagrafico.
Ne consegue che eventuali controversie relative ad assegni sociali od a pensioni sociali derivanti da invalidità civile, da cecità civile o da sordomutismo, rientrano nel campo di applicazione della norma.
Infine, le vertenze relative alle condizioni di handicap e di disabilità, pur dovendo essere assoggettate alle nuove regole stabilite dall’art. 38, non solo non possono essere considerate derivanti, come è ovvio, da eventi assicurati, ma il loro riconoscimento non comporta nemmeno alcuna erogazione in forma di rendita, atteso che danno luogo ad altre prerogative, anche di carattere non economico.
In particolare: - per la categoria dei disabili, è previsto l’istituto del collocamento obbligatorio, del collocamento mirato, della riqualificazione professionale gratuita, del regime di incompatibilità relativamente ad alcune mansioni, ecc.; - per la categoria degli handicappati, sono stabilite alcune agevolazioni nello svolgimento del rapporto del rapporto di lavoro subordinato, tra le quali meritano citazione le giornate di permesso, il diritto alla sede di lavoro, le facilitazioni per gli esami di concorso o di abilitazione, il diritto all’integrazione scolastica, ecc. Al di fuori del rapporto di lavoro, meritano segnalazione l’eliminazione delle barriere architettoniche; le agevolazioni fiscali (riduzione dell’IVA e concessione della detrazione d’imposta) per l’acquisto dei veicoli (compresi i relativi adattamenti) e gli ausili protesici; l’esenzione delle tasse automobilistiche; ecc.
L’elencazione delle tutele appena predisposta deve essere considerata puramente indicativa ed evidentemente non esaustiva, atteso che lo spazio riservato al presente lavoro non consente un’analisi di più ampio contenuto.
Una terza questione riguarda le ripercussioni arrecate dalle due tipologie di prestazioni previdenziali invalidanti (ossia, giova ripeterlo, la pensione di inabilità e l’assegno di invalidità) all’intero sistema delle assicurazioni sociali: se infatti non si pongono problemi in ordine alle prestazioni assistenziali (quelle cioè relative all’invalidità civile, alla cecità civile, al sordomutismo, all’handicap e alla disabilità, per le quali la legittimazione passiva in giudizio è stata attribuita, come vedremo meglio in seguito, in via esclusiva all’INPS), alquanto articolata appare invece l’esatta individuazione delle gestioni assicurative a cui sono state eventualmente estese le più sopra accennate prestazioni invalidanti, come pure la ricognizione degli Enti che le amministrano.
Nel far presente che l’intera problematica sarà affrontata nel paragrafo successivo, al momento si ritiene utile premettere che la pensione di inabilità e l’assegno di invalidità sono state introdotte nell’ordinamento previdenziale del nostro Paese dalla legge 12 giugno 1984, n. 222, in sostituzione della precedente invalidità pensionabile, la cui definizione legale era stata stabilita quasi mezzo secolo prima dall’art. 10 del R. D. L. 14 aprile 1939, n. 636, e successive modificazioni ed integrazioni.
Il problema che si pose all’epoca fu quello di verificare se la riforma ex lege n. 222 fosse stata circoscritta al solo regime generale (A. G. O., acronimo di Assicurazione generale obbligatoria), ovvero se si riflettesse anche sui regimi pensionistici dei fondi sostitutivi, esclusivi e esonerativi della stessa A. G. O., atteso anche che l’ordinamento di alcuni di essi prevedevano, quanto alla definizione legale del concetto di invalidità, un rinvio c. d. “dinamico” all’appena accennato regime generale.
Nel panorama dell’invalidità pensionabile coesistevano infatti (e coesistono tuttora) una pluralità di forme di assicurazione sociale, giustificate peraltro dalle caratteristiche obiettive che contraddistinguevano i rispettivi rapporti di lavoro da cui traevano origine e dai quali scaturiva la necessità di prevedere trattamenti pensionistici differenziati, anche in materia di invalidità, rispetto al regime generale.
Non potendo stabilire una regola di carattere generale, la soluzione delle problematiche rivolte a delimitare l’esatta portata del campo di applicazione dell’art. 38 implica innanzitutto che si analizzino, caso per caso, le definizioni legali del concetto di invalidità configurate per le forme pensionistiche sostitutive, esclusive ed esonerative dell’A. G. O.
In seconda battuta, occorrerà verificare se ed in quale misura ognuna di esse presenterà caratteri differenziali rispetto al concetto di invalidità previsto per il più volte citato regime generale.
Il servizio legale dell’INPS, chiamato a pronunciarsi all’indomani dell’entrata in vigore della legge n. 222, espresse il parere che l’ambito di operatività di tale norma non si ponesse (nel senso che non vi era coincidenza di definizione legale del concetto di invalidità) relativamente a fondi per i quali l’invalidità era stata disciplinata, in forma autonoma, come invalidità specifica (circolare dell’INPS n. 86 del 12 aprile 1985).
Per motivi di brevità eviteremo di commentare le motivazioni di carattere medico-legale a cui il massimo Istituto previdenziale era pervenuto: il lettore che volesse approfondire l’argomento, potrà consultare la circolare n. 1 diramata dall’appena citato Istituto previdenziale in data 3 gennaio 1985.
In questa sede ci limiteremo più semplicemente ad approntare una tabella, che sarà inserita nel paragrafo successivo, dalla quale risulterà la tipologia di invalidità applicabile alle singole gestioni previdenziali, non prima però di aver sottolineato che, stante la generica dizione adottata dal legislatore, si può legittimamente assumere che, da un lato, nella locuzione “pensioni di inabilità” debbano essere inclusi anche “l’assegno privilegiato di inabilità” e l’eventuale subordinato “assegno mensile per l’assistenza personale e continuativa”, e, dall’altro lato, che l’ulteriore locuzione “Assegno di invalidità” debba comprendere sia “l’Assegno ordinario di invalidità” (A. O. I.), sia “l’Assegno privilegiato di invalidità” (A. P. I.).
Le definizioni legali del concetto di invalidità
Per tornare alle complesse problematiche rivolte a stabilire l’esatta portata delle definizioni legali dei concetti di invalidità, in prima battuta va annotato che l’invalidità civile è una invalidità di tipo misto, vale a dire generica ed allo stesso tempo attitudinale (e svincolata da qualsivoglia rapporto di assicurazione sociale), nella quale prevale tuttavia quella generica, condizione, quest’ultima, che comporta una diminuzione dell’idoneità che tenga conto dell’astratta capacità lavorativa insita in un individuo per così dire “normalmente abile” (e per tale si intende l’inidoneità che prescinde dalle attitudini di un singolo soggetto o dalla propensione acquisita dallo stesso professionalmente, così che la menomazione psico-fisica abbia la stessa valenza, qualunque sia la sua attitudine e la sua potenziale professionalità).
Si consideri, lo si cita a mero titolo di esempio, il caso di un soggetto “nato” (ci si consenta il termine) per fare l’ingegnere: egli avrà evidentemente una notevole propensione per la matematica. Tuttavia, per quanta attitudine possa avere per tale materia, qualora non avesse avuto la possibilità di frequentare adeguati corsi di studio, non avrebbe potuto acquisire le capacità per sviluppare la sua maturale inclinazione (di qui appunto la “professionalità acquisita” appena accennata).
Nella valutazione del livello di invalidità civile, l’incidenza della capacità attitudinale (come appena sottolineato, quella relativa alla predisposizione del soggetto interessato ed alla sua competenza acquisita, che è tipica, anzi esclusiva, delle assicurazioni sociali, ed in particolare dell’invalidità pensionabile) è di assai lieve entità, essendo circoscritta alla valutazione di un correttivo di appena il 5 per cento in più od in meno rispetto a quella generica.
Recita infatti l’art. 3 del decreto legislativo 23 novembre 1988, n. 509, che “Le percentuali di invalidità, indicate nella tabella di cui al comma 1 dell’articolo 2 in misura fissa ovvero con individuazione di fascia, possono essere ridotte o aumentate dalle competenti commissioni fino a cinque punti percentuali, rispetto ai valori fissi indicati, con riferimento alle occupazioni confacenti alle attitudini del soggetto, alla eventuale specifica attività lavorativa svolta ed alla formazione tecnico-professionale del medesimo. Le competenti commissioni in ogni caso determinano le potenzialità lavorative del soggetto.”
Dal testo della norma si rileva, inoltre, che il compito della valutazione medico-legale viene facilitato dal fatto chela Commissionedeputata a decidere deve tenere presente i valori percentuali indicati nella tabella di cui al comma 1 dell’articolo 2 (approvata con decreto del Ministero della sanità del 5 febbraio 1992).
Relativamente ad alcune patologie, peraltro, sono previsti dei limiti minimi e massimi all’interno dei quali il citato consesso deve operare la valutazione dello stato invalidante, valutazione che costituisce l’unico fattore di indeterminismo dell’accertamento.
L’invalidità derivante da un rapporto di assicurazione sociale, che come si è avuto modo di chiarire in precedenza costituiscono le vere e proprie pensioni di invalidità, può essere considerata sotto due aspetti: l’invalidità specifica e l’invalidità generica.
L’invalidità specifica è quella che insorge allorchè un soggetto non è più in grado di svolgere il proprio mestiere o la propria professione abituali: tanto per fare ancora un esempio, il macchinista delle ferrovie, nei confronti del quale il regolamento della strada ferrata impone una capacità visiva in entrambi gli occhi di almeno sei decimi, diviene invalido specificatamente (vale a dire limitatamente a tale mansione) allorchè il suo “visus” si riduca al di sotto di tale soglia.
La sicurezza del traffico impone infatti che detto lavoratore venga esonerato, ricorrendo tale evenienza, dall’esercizio di siffatta specifica mansione. Tuttavia il prestatore d’opera in questione non potrà essere considerato invalido in senso assoluto, dal momento che conserva ancora altre capacità lavorative e potrà pertanto svolgere ulteriori mansioni.
Infatti egli potrà essere adibito, magari rieducandosi e/o conformandosi gradatamente a differenti esigenze tecniche, ad altre attività (sia nella stessa azienda ferroviaria, sia altrove) che non richiedano una particolare acutezza visiva: detto in altri termini, l’ex macchinista non è genericamente invalido.
L’ordinamento previdenziale del nostro Paese, salvo alcune eccezioni che saranno riportate nella già citata tabella, riconosce il diritto alla pensione intesa in senso tecnico (lo si ripete ancora, quella collegata ad un rapporto di assicurazione sociale) solo nel caso di riscontrata invalidità generica, che è indubbiamente l’inettitudine lavorativa più grave rispetto a quella specifica, e questo perché l’interesse sociale esige che non vengano estromessi dalla produzione i lavoratori che, pur essendo inabili a svolgere una specifica mansione, abbiano tuttavia la possibilità di essere occupati in altre attività.
Diversamente opinando, infatti, si arrecherebbero, ad un tempo, due danni sociali: il primo rappresentato dal mancato impiego delle residue energie dei lavoratori; il secondo derivante dal fatto che l’erogazione della prestazione invalidante a favore di chi può ancora esercitare una attività lavorativa, costituirebbe un ingiustificato onere a carico della collettività.
La legge 12 giugno 1984, n. 222, realizza tale esigenza, atteso che prevede una inettitudine lavorativa essenzialmente attitudinale.
Recita infatti l’art. 1 (rubricato con il titolo di “Assegno ordinario di invalidità”), comma 1, nella sua versione originaria, tuttora immodificata nonostante il decorso di oltre un quarto di secolo, che “Si considera invalido, ai fini del conseguimento del diritto ad assegno nell’assicurazione obbligatoria per l’invalidità, la vecchiaia ed i superstiti dei lavoratori dipendenti ed autonomi gestita dall’Istituto nazionale della previdenza sociale, l’assicurato la cui capacità di lavoro, in occupazioni confacenti alle sue attitudini, sia ridotta in modo permanente a causa di infermità o difetto fisico o mentale a meno di un terzo.”
Il successivo art. 2, sempre al comma 1, considera invece inabile l’assicurato il quale, a causa di infermità o difetto fisico o mentale, si trovi nell’assoluta e permanente impossibilità di svolgere qualsiasi attività lavorativa: in tal caso la completa inettitudine lavorativa include evidentemente anche la riduzione della capacità attitudinale.
La differenza tra le due tipologie di prestazioni invalidanti non è dunque qualitativa, bensì unicamente quantitativa; nel primo caso infatti la riduzione della capacità lavorativa va dal 67 al 99 per cento rispetto a quella totale, laddove, nel secondo caso, coincide con il 100 per cento (come già detto, ad una completa inettitudine lavorativa).
Ed ancora, volendo raffrontare le due sopra descritte invalidità attitudinali con quella specifica, si può richiamare l’attenzione su quanto affermato dall’INPS con la circolare n. 1 del 3 gennaio 1985, laddove, al punto 1, si recita che “Richiamando quanto definitivamente acquisito in dottrina e giurisprudenza, va precisato che il prescritto riferimento alle “occupazioni confacenti alle sue attitudini” delinea una particolare forma di invalidità intermedia tra quella generica e quella specifica, ma non equidistante giacché nel singolo caso concreto si avvicina più all’uno o all’altro genere di invalidità a seconda del grado di specializzazione professionale dell’ assicurato.”
La tabella che segue fornisce lo schema completo di tutte le situazioni invalidanti
TABELLA SINOTTICA DELLE INVALIDITA’ PENSIONABILI
Fondi pensione
amministrati dall’INPS |
Fondi pen-sione am- ministrati
da altri enti |
Tipologia di invalidità applicabile | ||
Regime generale dell’A. G. O. |
Regimi speciali
(invalidità specifica) |
|||
Assegno diinvalidità | Pensione diinabilità | |||
Fondo pensione dei lavoratori dipendenti privati (A. G. O.); ge-stioni speciali degli artigiani, commerci-anti, coltivatori diret-ti coloni, mezzadri, imprenditori agricoli professionali; gestio-ne separata art. 2, comma 26, della leg-ge n. 335/1995 |
———- |
SI |
SI |
NO |
Fondo elettrici | ———- | SI (1) | SI (1) | NO (1) |
Fondo telefonici | ———- | SI (2) | SI (2) | NO (2) |
Fondo dazio | ———- | NO | NO | SI |
Fondo autoferrotran-vieri:- personale
viaggiante ……… – generalità del personale …… |
———-
———- |
NO
SI(4) |
NO
SI(4) |
SI
NO |
Fondo volo (5) | ———- | SI (6)(7) | SI(6)(7) | SI(6)(7) |
Fondo clero | ———- | NO(8) | NO(8) | SI(9) |
Fondo esattoriali | ———- | NO | NO | SI |
Fondo gas | ———- | NO | NO | SI |
Fondo minatori | ———- | SI | SI | NO |
Fondo pescatori della piccola pesca marit-tima e delle acque in-terne ex lege 13 mar-zo 1958, n. 250 (10) |
———- |
SI |
SI |
NO |
Fondo ferrovieri (12) | ———- | SI | SI(11) | SI |
Fondo dei lavoratori marittimi (c. d. “gen-te di mare”) | ———- | SI(12) | SI(12) | SI(12) |
Fondo per i dirigenti di aziende industriali (ex INPDAI) | ———- | SI(13) | SI(13) | NO(13) |
Fondo ex IPOST | ———- | NO | NO | SI(14) |
Fondo pensioni dei lavoratori dello spettacolo | ENPALS | SI | SI | SI(15) |
Fondi per i giornali-sti, sia dipendenti (INPGI 1), sia auto-nomi (INPGI 2) | INPGI |
NO |
NO
|
SI |
Fondi dipendenti del-lo Stato (GSTPDS), degli Enti locali (CPDEL), degli Uffi-ciali giudiziari (CPS),
degli insegnanti di a-sili nido e di scuole elementari parificate (CPI); |
INPDAP |
NO
|
NO |
SI(16)
|
Fondi a favore dei professionisti muniti di Cassa di previd. | (17) | NO | NO | SI |
(1) Relativamente alle domande di prestazione presentate a partire dal 15
novembre 1996.
(2) Relativamente alle domande di prestazione presentate a partire dal 9
gennaio 1997.
(3) Relativamente alle domande di prestazione presentate a partire dal 26 agosto 1996.
(4) Ivi compreso il personale viaggiante per il quale sia stato possibile il collocamento in altre mansioni presso la stessa azienda autoferrotranviaria.
(5) Vi sono iscritti i soli piloti, i tecnici di volo e gli assistenti di volo.
(6) Le prestazioni dell’A. G. O. sono alternative e perciò non compatibili e/o cumulabili con quelle del regime speciale. Inoltre, a differenza di quanto si
verifica per il Fondo autoferrotranvieri, l’azienda non ha l’obbligo di collocare in altre mansioni “a terra” il dipendente non più ritenuto abile
alla navigazione aerea.
(7) Relativamente alle domande di prestazione presentate a partire dal 1° luglio
1997.
(8) A meno che i relativi iscritti non abbiano instaurato un rapporto di lavoro
subordinato con datori pubblici o privati (generalmente ciò accade in
conseguenza dell’insegnamento di religione): in tal caso l’iscritto al fondo
clero sarebbe anche iscritto all’A. G. O. (qualora insegni presso una scuola
privata) ovvero all’INPDAP (qualora insegni presso una scuola pubblica),
per cui potrebbe conseguire il diritto a due o tre trattamenti invalidanti che
risulterebbero anche compatibili tra di loro ai sensi dell’art. 5, comma 5,
della legge 22 dicembre 1973, n. 903.
(9) Ai sensi dell’art. 13 della legge 22 dicembre 1973, n. 903, la pensione di invalidità spetta anche all'iscritto
al fondo clero ridotto allo stato laicale o esonerato dalle funzioni di ministro di culto che sia stato riconosciuto
invalido ai sensi della legge 12 giugno 1984, n. 222.
(10) Rientrano nel campo di applicazione della legge 13 marzo 1958, n. 250, i marittimi di cui all’art. n. 115 del
codice della navigazione che esercitino la pesca quale attività professionale con natanti non superiori alle 10
tonnellate di stazza lorda, i pescatori che esercitano a turno la pesca con le “nasse”, i “cogolli” e le “tratte”,
nonché le persone che esercitano la viticoltura e la ostricoltura, ed i pescatori di mestiere delle acque interne
forniti di apposita licenza e che non lavorino alle dipendenze di terzi come concessionari di specchi d’acqua, aziende vallive di agricoltura, ecc.
(11) Con riferimento all’assegno di invalidità, alla categoria dei ferrovieri compete la sola pensione di invalidità
privilegiata (vale a dire la pensione “diretta” derivante da eventi connessi a cause di servizio) e non anche
l’A.O. I. (ossia l’assegno ordinario di invalidità).
(12) In ossequio al principio di carattere generale secondo il quale la contribuzione non può essere utilizzata
più di una volta nel computo delle prestazioni, il riconoscimento delle prestazioni di cui alla legge 12 giugno 1984, n. 222,
esclude il diritto ai trattamenti previsti dall’invalidità specifica (la pensione di inabilità alla navigazione e la
pensione privilegiata per inabilità alla navigazione) e viceversa.
(13) Relativamente alle domande di prestazione presentate a partire dal 10 luglio 1997.
(14) Gli iscritti all’ex IPOST (ora INPS) hanno tuttavia diritto, a partire dal 1° gennaio 1996, ad un trattamento
pressochè analogo (anche se non identico non abbia la stessa valenza giuridica) alla pensione di inabilità di cui alla
legge 12 giugno 1984, n. 222.
La prestazione compete, tra gli altri requisiti, alla condizione che l’infermità non sia dipesa da causa di servizio, laddove invece i trattamenti di cui alla
legge 12 giugno 1984, n. 222, possono dar luogo anche all’inabilità per causa di servizio.
(15) Le categorie professionali interessate sono unicamente gli attori di prosa, di
operetta, di rivista, di varietà ed attrazioni, di presentatori, di disc-jockey, di attori generici cinematografici,
attori di doppiaggio cinematografico, di direttori d’orchestra e sostituti, di figuranti, di indossatori; di artisti lirici,
di professori d’orchestra, di orchestrali, di coristi, di concertisti, di cantanti di musica leggera, di tersicorei
ed infine di ballerini.
(16) Gli iscritti all’INPDAP hanno tuttavia diritto, a partire dal 1° gennaio 1996, ad un trattamento pressochè
analogo (anche se non identico e perciò di diversa valenza giuridica) alla pensione di inabilità di cui alla
legge 12 giugno 1984, n. 222. La prestazione compete, tra gli altri requisiti, alla condizione che l’infermità non
sia dipesa da causa di servizio, laddove nvece i trattamenti di cui alla legge 12 giugno 1984, n. 222, possono
dar luogo anche all’inabilità per causa di servizio.
(17) Sono attualmente muniti di cassa di previdenza professionale i notai (CNN); gli avvocati e procuratori (CPF); i farmacisti (ENPAF); i medici (ENPAM);
i veterinari (ENPAV); i geometri (CG); i commercialisti (CNPADC); i ragionieri e periti commerciali (CNPR);
gli ingegneri e gli architetti (INARCASSA); i consulenti del lavoro (ENPALC); gli psicologi (ENPAP);
i periti industriali (EPPI); i biologi (ENPAB); gli infermieri professionali, gli assistenti sanitari e le vigilatrici
di infanzia (che hanno peraltro istituito un’unica cassa di previdenza denominata ENPAPI); gli attuari,
gli agronomi, i geologi, i chimici e dei dottori forestali (che hanno istituito un fondo pluricategoriale denominato EPAP).
L’accertamento tecnico preventivo obbligatorio
Anche prima di iniziare la trattazione dell’accertamento in epigrafe, si rende necessario formulare alcune premesse:
La prima riguarda il fatto che la nuova norma ha lasciato immutato, laddove esistenti, le modalità di esercizio del contenzioso amministrativo per concentrare l’attenzione su quello giudiziario.
A tal fine vale la pena di rinfrescare la memoria circa la dicotomia procedurale che tuttora si riscontra tra le prestazioni assistenziali (quelle cioè, non ci stancheremo di ripetere, relative all’invalidità civile, alla cecità civile, al sordomutismo, all’handicap e alla disabilità) e le prestazioni derivanti da un rapporto di assicurazione sociale collegate ad un evento invalidante (le pensioni di inabilità e gli assegni di invalidità, entrambe secondo le definizioni legali fornite dalla legge 12 giugno 1984, n. 222).
Nel primo caso, il contenzioso amministrativo è stato a suo tempo abolito: il richiedente che non si fosse ritenuto soddisfatto dalla decisione della Commissione preposta avrebbe potuto unicamente intentare l’azione giudiziaria entro il termine di 6 mesi dalla data di notifica della reiezione.
In ipotesi invece di diniego della pensione di inabilità ovvero dell’assegno di invalidità, persiste tuttora le possibilità di proporre il ricorso amministrativo (di qui la dicotomia più sopra accennata) in unico grado presso il Comitato provinciale dell’INPS, dopo di chè si sarebbe potuto intentare l’azione giudiziaria (c. d. “Rilevanza o propedeuticità del procedimento amministrativo” di cui all’art. 443 del codice di procedura civile).
Il condizionale utilizzato in entrambi i casi, deriva dal fatto che, sulla base della nuova previsione normativa, il ricorso giudiziario non può essere attivato prima di aver presentato istanza di accertamento tecnico.
Conclusivamente, dunque, la propedeuticità dell’esperimento dell’azione amministrativa rispetto a quella giudiziaria è limitata alle sole prestazioni per invalidità derivanti da un rapporto di assicurazione sociale: resta comunque fermo che, in ogni caso (vale a dire sia per le domande di prestazioni di natura assistenziali che per quelle previdenziali), il ricorso giudiziario,stante la nuova procedura introdotta dall’art. 38, comma 1, del decreto legge 6 luglio 2011, n. 98, convertito in legge, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 15 luglio 2011, n. 111, non può essere proposto (ed anticipiamo in parte il contenuto delle innovazioni apportate dall’appena menzionato articolo) prima di aver obbligatoriamente esplicitato l’accertamento tecnico preventivo.
La seconda si riferisce alla circostanza che è stato lasciato immutato il preesistente quadro della legittimazione passivain materia di prestazioni cc. dd. “assistenziali”, il quale rimane tuttora regolamentato dall’art. 10, comma 6, del decreto legge 30 settembre 2005, n. 203, convertito nella legge 2 dicembre 2005, n. 248.
Recita infatti la suddetta alinea che “A decorrere dalla data di effettivo esercizio da parte dell’I.N.P.S. delle funzioni trasferite gli atti introduttivi dei procedimenti giurisdizionali in materia di invalidità civile, cecità civile, sordomutismo, handicap e disabilità, nonché le sentenze ed ogni provvedimento reso in detti giudizi devono essere notificati all’I.N.P.S. La notifica va effettuata presso le sedi provinciali dell’I.N.P.S. Nei procedimenti giurisdizionali di cui al presente comma l’I.N.P.S. limitatamente al giudizio di primo grado, è rappresentato e difeso direttamente da propri dipendenti.”
Pertanto, a decorrere dal 1° luglio 2009, il sopra citato Istituto previdenziale è l’unico legittimato passivo nei ricorsi proposti in materia di prestazioni di invalidità civile, cecità civile, sordomutismo, handicap e disabilità.
L’intervento normativo si rese a suo tempo indispensabile per porre fine allo stato di confusione venutosi a creare in conseguenza dell’attribuzione all’INPS di alcune specifiche funzioni precedentemente di competenza di altri Enti pubblici, i quali ultimi, restando residualmente depositari di altre prerogative comunque connesse alle appena citate prestazioni assistenziali, avrebbero dovuto necessariamente essere coinvolti in regime di litisconsorzio.
A tale riguardo, lo stesso Istituto previdenziale, prendendo atto della nuova disposizione, ha affermato che “Appare evidente come la portata del comma 5 dell’articolo 20 del Decreto Legge 1° luglio 2009 numero 78, proceda nell’azione volta ad individuare nell’Istituto il centro di responsabilità per la gestione coordinata delle attività e delle informazioni gestionali ed economiche connesse al processo di riconoscimento degli stati di invalidità civile, cecità civile, sordomutismo, handicap e disabilità.” (circolare n. 93 del 20 luglio 2009).
La terza concerne la decorrenza delle nuove disposizioni le quali, a mente del secondo comma del più volte citato art. 38, si applicano da 1° gennaio 2012: questo spiega la ragione per la quale, al momento in cui si scrive (mese di novembre 2011) non è ancora stata diramata da parte dell’INPS alcuna circolare rivolta alla concreta applicazione delle nuove previsioni normative.
In proposito ci sembra opportuno segnalare che, stante il tenore letterale della norma, il nuovo precetto si debba applicare, almeno nella maggior parte dei casi e salvo conferma da parte delle autorità amministrative e giurisdizionali, alle domande presentate a partire dal 1° dicembre 2011, visto che i relativi trattamenti consistenti in erogazione di rendite periodiche sono riconosciuti su base mensile (non possono cioè essere frazionati in giorni) e che le prestazioni decorreranno di conseguenza dal primo giorno del mese successivo alla data di presentazione della domanda (dal 1° gennaio 2012, appunto: staremo a vedere le prossime prese di posizione ufficiali.
Qualche perplessità si manifesta in relazione alle domante presentate prima del mese di dicembre 2011 e per le quali la decorrenza dei trattamenti, stabilita in sede di contenzioso giudiziario, sarà differita alla data del 1° gennaio 2012 o successiva.
In particolare, se nessun problema si pone (o almeno così sembrerebbe) nell’ipotesi in cui la decorrenza venga post-posta sulla base delle risultanze della consulenza tecnica d’ufficio già precedentemente richiesta dal giudice, qualora invece il differimento della decorrenza fosse stabilita senza il ricorso all’appena citata consulenza tecnica, lo stesso magistrato potrebbe ritenere opportuno sospendere il giudizio e disporre l’esperimento dell’accertamento tecnico preventivo previsto dall’art. 38, comma 1, lettera b), del più volte richiamato decreto legge n. 98: anche in questo caso non resta che attendere.
Per tornare al punto, la norma introduce all’interno del codice di procedura civile, mediante un nuovo articolo (come già detto, il 445-bis, rubricato con il titolo di “Accertamento tecnico obbligatorio”), che obbliga colui che intende proporre in giudizio domanda per il riconoscimento dei propri diritti a presentare “con ricorso al giudice competente ai sensi dell’articolo 442 codice di procedura civile, presso il Tribunale nel cui circondario risiede l’attore, istanza di accertamento tecnico per la verifica preventiva delle condizioni sanitarie legittimanti la pretesa fatta valere. Il giudice procede a norma dell’articolo 696-bis codice di procedura civile, in quanto compatibile nonché secondo le previsioni inerenti all’accertamento peritale di cui all’articolo 10, comma 6-bis, del decreto-legge 30 settembre 2005, n. 203, convertito, con modificazioni, dalla legge 2 dicembre 2005, n. 248, e all’articolo 195.” (art. 38, lettera b), sub 1), primo capoverso).
In pratica:
- il ricorrente ha l’obbligo di richiedere, con lo strumento del ricorso diretto al Tribunale territorialmente competente, l’esperimento dell’accertamento tecnico preventivo, accertamento che ai sensi della lettera b), punto 1), secondo periodo, dell’art. 38 più volte citato, costituisce condizione di procedibilità della domanda.
Tuttavia, a mente del successivo periodo dello stesso punto 1, “L’improcedibilità deve essere eccepita dal convenuto a pena di decadenza o rilevata d’ufficio dal giudice, non oltre la prima udienza. Il giudice ove rilevi che l’accertamento tecnico preventivo non è stato espletato ovvero che è iniziato ma non si è concluso, assegna alle parti il termine di quindici giorni per la presentazione dell’istanza di accertamento tecnico ovvero di completamento dello stesso.
La richiesta di espletamento dell’accertamento tecnico interrompe la prescrizione.”
Dal testo della norma appare evidente che l’INPS dovrà prestare la massima attenzione a chè il termine entro cui deve essere eccepita l’improcedibilità non decorra, pena la proseguibilità dell’azione giudiziaria da parte dell’attore che l’abbia intentata anche in assenza dell’accertamento tecnico;
- il Giudice ha a sua volta l’obbligo di procedere, a norma dell’art. 696-bis del codice di procedura civile, in quanto compatibile (ossia ad effettuare, almeno così sembrerebbe) al tentativo della conciliazione delle parti prima del deposito della relazione peritale, come pure a rispettare le modalità stabilite dall’art. 10, comma 6-bis, del decreto legge 30 settembre 2005, n. 203, convertito, con modificazioni, dalla legge 2 dicembre 2005, n. 248, laddove si legge appunto che “Nei procedimenti giurisdizionali civili relativi a prestazioni sanitarie previdenziali ed assistenziali, nel caso in cui il giudice nomini un consulente tecnico d’ufficio, alle indagini assiste un medico legale dell’ente, su richiesta, del consulente nominato dal giudice, il quale provvede ad inviare, entro 15 giorni antecedenti l’inizio delle operazioni peritali, anche in via telematica, apposita comunicazione al direttore della sede provinciale dell’INPS competente o a suo delegato. Alla relazione peritale è allegato, a pena di nullità, il riscontro di ricevuta della predetta comunicazione. L’eccezione di nullità è rilevabile anche d’ufficio dal giudice. Il medico legale dell’ente è autorizzato a partecipare alle operazioni peritali in deroga al comma primo dell’articolo 201 del codice di procedura civile [detto comma prevedeva che a disporre la nomina del consulente tecnico di parte avrebbe dovuto essere il giudice, n. d. a.]. Al predetto componente competono le facoltà indicate nel secondo comma dell’articolo 194 del codice di procedura civile [l’intervento mediante la formulazione di osservazioni e la presentazione di istanze alle operazioni peritali effettuate dal Consulente tecnico d’ufficio nominato dal giudice, n. d. a.].”
Il magistrato medesimo è altresì tenuto al rispetto della procedura di cui all’art. 195 del codice di procedura civile, rubricato con il titolo di “Processo verbale e relazione”, laddove si recita che “Delle indagini del consulente si forma processo verbale, quando sono compiute con l’intervento del giudice istruttore, ma questi può anche disporre che il consulente rediga relazione scritta.
Se le indagini sono compiute senza l’intervento del giudice, il consulente deve farne relazione, nella quale inserisce anche le osservazioni e le istanze delle parti [disp. att. c. p. c., art. 92].
La relazione deve essere trasmessa dal consulente alle parti costituite nel termine stabilito dal giudice con ordinanza resa all’udienza di cui all’articolo 193. Con la medesima ordinanza il giudice fissa il termine entro il quale le parti devono trasmettere al consulente le proprie osservazioni sulla relazione e il termine, anteriore alla successiva udienza, entro il quale il consulente deve depositare in cancelleria la relazione, le osservazioni delle parti e una sintetica valutazione sulle stesse.”
- lo stesso Giudice, “terminate le operazioni di consulenza, con decreto comunicato alle parti, fissa un termine perentorio non superiore a trenta giorni, entro il quale le medesime devono dichiarare, con atto scritto depositato in cancelleria, se intendono contestare le conclusioni del consulente tecnico dell’ufficio.
In assenza di contestazione, il giudice, se non procede ai sensi dell’articolo 196 [rinnovazione dell’indagine e sostituzione del consulente, n. d. a.], con decreto pronunciato fuori udienza entro trenta giorni dalla scadenza del termine previsto dal comma precedente omologa l’accertamento del requisito sanitario secondo le risultanze probatorie indicate nella relazione del consulente tecnico dell’ufficio provvedendo sulle spese. Il decreto, non impugnabile nè modificabile, è notificato agli enti competenti, che provvedono, subordinatamente alla verifica di tutti gli ulteriori requisiti previsti dalla normativa vigente, al pagamento delle relative prestazioni, entro 120 giorni.
Nei casi di mancato accordo la parte che abbia dichiarato di contestare le conclusioni del consulente tecnico dell’ufficio deve depositare, presso il giudice di cui al comma primo, entro il termine perentorio di trenta giorni dalla formulazione della dichiarazione di dissenso, il ricorso introduttivo del giudizio, specificando, a pena di inammissibilità, i motivi della contestazione.” (ultimi quattro capoversi della lettera b), sub 1).
La rilevanza del “ricorso introduttivo del giudizio”, più sopra evidenziato in grassetto (al cui mancato deposito consegue l’inammissibilità dell’azione giudiziaria), è accentuata dal fatto che in sub 2) della lettera b), comma 1, dell’art. 38, è stato esplicitato che “A tale fine la parte ricorrente, a pena di inammissibilità di ricorso, formula apposita dichiarazione del valore della prestazione dedotta in giudizio, quantificandone l’importo nelle conclusioni dell’atto introduttivo.”
Relativamente a tale situazione ed ai giudizi pendenti alla data di entrata in vigore della norma in commento (come già sappiamo, il 1° gennaio 2012), il comma 3 dello stesso art. 38 stabilisce che “la dichiarazione relativa al valore della lite deve essere formulata nel corso del giudizio”.
Tale ultima previsione si palesa, ameno avuto riguardo alle prestazioni assistenziali, alquanto pleonastica, dal momento che gli importi delle diverse provvidenze all’uopo fissate sono stabilite in misura fissa e predeterminata: sarebbe stato pertanto più confacente alla bisogna limitare la quantificazione alle sole prestazioni previdenziali (come più volte specificato, le pensioni di inabilità e gli assegni di invalidità) il cui ammontare si determina in funzione diretta del coacervo dei contributi fatti valere dal singolo ricorrente.
L’intento di realizzare gli obiettivi elencati nel primo comma dell’articolo in commento (giova ripeterlo, una maggiore economicità dell’azione amministrativa e favorire la piena operatività e trasparenza dei pagamenti, nonché deflazionare il contenzioso in materia previdenziale, come pure di contenere entro termini ragionevoli la durata dei relativi processi) è confermato anche dalla disposizione contenuta nella lettera c) dello stesso articolo, laddove si legge che “Gli enti previdenziali provvedono al pagamento delle somme dovute a titolo di spese, competenze e altri compensi in favore dei procuratori legalmente costituiti esclusivamente attraverso l’accredito delle medesime sul conto corrente degli stessi. A tal fine il procuratore della parte è tenuto a formulare richiesta di pagamento delle somme di cui al periodo precedente alla struttura territoriale dell’Ente competente alla liquidazione, a mezzo raccomandata con avviso di ricevimento o posta elettronica certificata, comunicando contestualmente gli estremi del proprio conto corrente bancario e non può procedere alla notificazione del titolo esecutivo ed alla promozione di azioni esecutive per il recupero delle medesime somme se non decorsi 120 giorni dal ricevimento di tale comunicazione.”
Gli enti previdenziali interessati hanno dunque 120 giorni di tempo per effettuare i pagamenti: in tal modo operando potranno evitare una defaticante e costosa azione esecutiva.
A mente del comma 3 del più volte citato art. 38, la disposizione appena parafrasata si applica anche ai giudizi pendenti in primo grado al 6 luglio 2011, che è appunto la data di pubblicazione del decreto legge 6 luglio 2011, n. 98.
Integrazioni normative agli istituti della decadenza e della prescrizione
La lettera d) dell’art. 38, ai punti 1) e 2), apporta alcune integrazioni, agli istituti della decadenzae della prescrizione, rispetto a come erano regolamentate dal decreto del Presidente della Repubblica 30 aprile 1970, n. 639, e successive modificazioni ed integrazioni.
Recita infatti la suddetta lettera che “al decreto del Presidente della Repubblica 30 aprile 1970, n. 639, e successive modificazioni, sono apportate le seguenti modifiche:
1) all’articolo 47 è aggiunto, in fine, il seguente comma: “Le decadenze previste dai commi che precedono si applicano anche alle azioni giudiziarie aventi ad oggetto l’adempimento di prestazioni riconosciute solo in parte o il pagamento di accessori del credito. In tal caso il termine di decadenza decorre dal riconoscimento parziale della prestazione ovvero dal pagamento della sorte.”;
2) dopo l’articolo 47 è inserito il seguente:
“47-bis. 1. Si prescrivono in cinque anni i ratei arretrati, ancorché non liquidati e dovuti a seguito di pronunzia giudiziale dichiarativa del relativo diritto, dei trattamenti pensionistici, nonché delle prestazioni della gestione di cui all’articolo 24 della legge 9 marzo 1989, n. 88, o delle relative differenze dovute a seguito di riliquidazioni.”
Considerato che l’art. 47 appena richiamato disciplina espressamente il contenzioso giudiziario relativo ai trattamenti pensionistici erogati dall’INPS e quelli elargiti dalla gestione di cui all’articolo 24 della legge 9 marzo 1989, n. 88 (vale a dire le già citate prestazioni non pensionistiche corrisposte sempre dal sopra citato Istituto previdenziale), il campo di applicazione della lettera d) si estende a tutte le tipologie di pensione (non solo quindi a quelle di inabilità ed agli assegni di invalidità, oggetto del presente lavoro, ma anche ai trattamenti per anzianità, vecchiaia e superstiti), nonché alle cc. dd. “prestazioni minori” (disoccupazione involontaria, malattia e maternità, assegno al nucleo familiare, ecc.). Restano in ogni caso escluse le provvidenze di natura assistenziali (invalidità civile, cecità civile, sordomutismo, handicap e disabilità).
A tale riguardo, ed in via preliminare, vale la pena di richiamare alla memoria il fatto che l’istituto della decadenza concerne il solo ricorso giudiziario e può essere ovviamente invocato allorchè le domande rivolte al riconoscimento delle prestazioni siano state già presentate: ricorrendo tale ipotesi infatti è interesse dell’ordinamento a chè l’azione giudiziaria sia esperita entro determinati e ristretti termini, che incominciano a decorrere a partire dalla data di completamento dell’azione amministrativa.
Si applica invece l’istituto della prescrizione nel caso in cui la richiesta di prestazione, in conseguenza dell’inerzia del titolare, non sia stata ancora prodotta.
Nella scala temporale intesa all’ottenimento delle prestazioni previdenziali (giova ripeterlo, quelle pensionistiche a quelle cc. dd. “minori”) viene dunque attivata prima la prescrizione e dopo la decadenza.
Con riferimento, in particolare, alla prescrizione, si rileva che la nuova previsione legislativa complica ulteriormente il già articolato sistema pregresso, tuttora disciplinato dall’art. 129, comma 1, del Regio decreto legge 4 ottobre 1935, n.1827, convertito, con modificazioni, nella legge 6 aprile 1936, n. 1155, e dal conseguente orientamento giurisprudenziale consolidatosi in materia presso la Corte di Cassazione e recepito dal Consiglio di Amministrazione dell’INPS con deliberazione n. 148 del 22 giugno 1979.
Detto in estrema sintesi, il principio di carattere generale è che, mentre alle rate di pensione già messe in pagamento si applica la prescrizione breve quinquennale di cui al sopra citato art. 129, le rate non ancora liquidate rientra invece nell’ambito della prescrizione ordinaria decennale di cui all’art. 2946 del codice civile.
Conformemente a tale presupposto, la prescrizione breve quinquennale trova riscontro nei casi di tardiva riscossione da parte del pensionato delle rate di pensione o delle maggiori somme spettanti a titolo di ricostituzione delle pensioni medesime poste in pagamento dall’appena citato Istituto previdenziale.
Per converso, la prescrizione ordinaria decennale deve trovare applicazione nei casi di presentazione della domanda di pensione o di ricostituzione a distanza di oltre dieci anni dalla data di decorrenza delle suddette prestazioni.
Ed ancora, la prescrizione ordinaria si impone nell’eventualità che le rate di pensione o le maggiori somme spettanti a titolo di ricostituzione (a domanda o d’ufficio) siano poste in pagamento a distanza di oltre dieci anni dalla loro scadenza virtuale, senza che da parte dell’interessato siano stati compiuti atti interruttivi della prescrizione.
Infine, la prescrizione decennale deve trovare applicazione anche nei casi di liquidazione o ricostituzione di pensione conseguenti alla sentenza della Corte Costituzionale, come pure nei casi di richiesta di pagamento delle rate maturate e non riscosse presentata dagli aventi causa del pensionato a distanza di oltre dieci anni dalla data di scadenza delle rate stesse (v. la circolare dell’INPS n. 164 del 24 luglio 1989, diramata in attuazione della sentenza della Corte Costituzionale n. 283 del 17 maggio 1989).
Avuto riguardo alla decadenza, vale la pena di richiamare alla memoria il contenuto dei commi secondo e terzo dell’articolo 47 del D.P.R. 30 aprile 1970, n. 639, nel testo sostituito dal comma 1 dell’articolo 4 del decreto legge 19 settembre 1992, n. 384, risultante dalla legge di conversione 14 novembre 1992, n. 438, nonché dalle successive modificazioni ed integrazioni, laddove si prevede testualmente che “Per le controversie in materia di trattamenti pensionistici l’azione giudiziaria può essere proposta, a pena di decadenza, entro il termine di tre anni dalla data di comunicazione della decisione del ricorso pronunziata dai competenti Organi dell’Istituto o dalla data di scadenza del termine stabilito per la pronunzia della predetta decisione, ovvero dalla data di scadenza dei termini prescritti per l’esaurimento del procedimento amministrativo, computati a decorrere dalla data di presentazione della richiesta di prestazione.
Per le controversie in materia di prestazioni della gestione di cui all’articolo 24 della legge 9 marzo 1989, n. 88, l’azione giudiziaria può essere proposta, a pena di decadenza, entro il termine di un anno dalle date di cui al precedente comma.”
Con la circolare n. 165 del 15 luglio 1993, l’INPS ebbe a chiarire che “La natura decadenziale del termine comporta per l’interessato l’onere di proporre l’azione giudiziaria nel termine perentorio prescritto dalla legge, trascorso il quale l’impugnazione diventa inammissibile; a norma dell’articolo 2966 del codice civile, infatti, la decadenza è impedita soltanto dalla proposizione dell’azione giudiziaria, non trovando per la stessa applicazione le norme relative all’interruzione ed alla sospensione del termine.
Il termine per la proposizione dell’azione giudiziaria decorre alternativamente:
- dal giorno successivo alla data di comunicazione della decisione del ricorso pronunziata dai competenti Organi dell’Istituto;
- dal giorno successivo alla data di scadenza del termine stabilito per la pronunzia della predetta decisione, cioè dal novantunesimo giorno successivo alla data di presentazione del ricorso (articolo 46, comma 6, della legge 9 marzo 1989, n. 88);
- dal giorno successivo alla data di scadenza dei termini prescritti per l’esaurimento del procedimento amministrativo, computati a decorrere dalla data di presentazione della richiesta di prestazione, cioè dal trecentunesimo giorno successivo alla data della richiesta medesima. Il predetto termine è determinato sommando al termine di 120 giorni previsto dall’articolo 7 della legge 11 agosto 1973, n. 533, per la formazione del silenzio rifiuto, il termine di 90 giorni per il ricorso al Comitato Provinciale e il termine di 90 giorni per la decisione del ricorso, previsti dall’articolo 46, commi 5 e 6, della legge 9 marzo 1989, n. 88.
Relativamente a tale ultima fattispecie va considerato che l’articolo 7 della legge 11 agosto 1973, n. 533, il quale dispone che “in materia di previdenza ed assistenza obbligatorie, la richiesta all’Istituto assicuratore si intende respinta, a tutti gli effetti di legge, quando siano trascorsi 120 giorni dalla data di presentazione senza che l’Istituto si sia pronunciato” è norma dettata a tutela del lavoratore, nell’intendimento di accelerare la prima fase del procedimento amministrativo mediante la qualificazione del silenzio come reiezione della richiesta.
L’inutile decorso del termine segna solo il momento a partire dal quale l’interessato può proporre ricorso, senza peraltro che l’Amministrazione perda la potestà di pronunciarsi con decisione tardiva [il fatto che, decorso il termine, il ricorso si intende respinto a tutti gli effetti, assume perciò valenza procedurale, n. d. a.].
Non si può non tener conto, inoltre, della circostanza secondo cui la legge 7 agosto 1990, n. 241, pur non abrogando la disciplina relativa al silenzio rifiuto, conferma l’obbligo della pubblica amministrazione di concludere il procedimento con l’adozione di un provvedimento espresso.
Pertanto, fermo restando che la decisione sulla richiesta di prestazione qualora intervenga prima del 120 giorno, preclude la formazione del silenzio-rifiuto, la decisione sulla richiesta di prestazione, intervenuta successivamente al 120 giorno fa venir meno il presupposto del silenzio-rifiuto.
Di conseguenza, in tale ipotesi, assume rilievo ai fini del decorso del termine di decadenza la data di comunicazione del provvedimento adottato sulla richiesta di prestazione.
Qualora, pertanto, il provvedimento in ordine alla richiesta di prestazione venga adottato in data anteriore o successiva rispettivamente alla scadenza del termine di 120 giorni o di 300 giorni, il termine per proporre l’azione giudiziaria decorre dal 181 giorno successivo a quello di comunicazione del provvedimento.
In caso di presentazione del ricorso avverso la decisione sulla richiesta di prestazione, il termine per la proposizione dell’azione giudiziaria decorre dal giorno successivo alla data di comunicazione della decisione del ricorso ovvero dal 91° giorno successivo alla data di presentazione del ricorso, semprechè tali date si collochino entro il 180° giorno dalla data di comunicazione della decisione sulla richiesta medesima.
Il termine per la proposizione dell’azione giudiziaria non può comunque decorrere da data successiva al 180° giorno dalla data di comunicazione della decisione sulla richiesta di prestazione.
Il ricorso amministrativo presentato o comunque pervenuto oltre il termine previsto per la proposizione dell’azione giudiziaria è inammissibile.
In tale contesto il termine di 300 giorni dalla presentazione della domanda deve ritenersi operante esclusivamente negli sporadici casi in cui non venga adottato il provvedimento in ordine alla richiesta di prestazione. Tale situazione, peraltro, non può che rivestire nell’ambito della normativa vigente carattere di eccezionalità.”
Ebbene, la lettera d) dell’art. 38, ha completato il quadro della normativa, estendendo i termini di decadenza, in precedenza applicabili alle sole prestazioni non riconosciute in misura integrale, anche alle azioni giudiziarie aventi per oggetto l’adempimento di trattamenti previdenziali riconosciuti solo in parte (come ad esempio in caso di richiesta di ricostituzione di una pensione) e/o al pagamento di accessori del credito.
Anche in questo caso, tuttavia, è opportuno far rilevare una ulteriore dicotomia esistente, in materia pensionistica, tra i due istituti giuridici in commento, visto che, mentre sul versante amministrativo coesistono due termini di prescrizione (come già sappiamo, quinquennale e decennale), su quello giudiziario il limite di scadenza è unico (tre anni dalla conclusione dell’azione amministrativa).
Considerazioni conclusive
Sulla base di quanto illustrato nel corso del presente lavoro, non può non condividersi l’intento del legislatore di limitare, o per lo meno di contenere, il ricorso al contenzioso giudiziario: tuttavia, stante la disposizione contenuta nella lettera b), primo comma, dell’art. 38, in assenza di contestazione, il giudice (la circostanza è stata già evidenziata in precedenza) “omologa l’accertamento del requisito sanitario secondo le risultanze probatorie indicate nella relazione del consulente tecnico dell’ufficio provvedendo sulle spese.”
In considerazione della laconicità con cui si esprime la norma, si può assumere che il magistrato adito possa stabilire che la spesa faccia carico al ricorrente, scoraggiandolo perciò anche dall’intraprendere la consulenza tecnica preventiva.
Francamente la cosa ci sembra eccessivamente penalizzante, dal momento che anche coloro che avrebbero effettivamente diritto alle prestazioni assistenziali potrebbero essere costretti a rinunciarvi nel timore di dover sostenere l’eventuale onere relativo alla consulenza tecnica preventiva: solo il corretto operare della magistratura, rivolto a penalizzare unicamente i soggetti che assumessero atteggiamenti velleitari o comunque palesemente infondati, potrebbe evitare tale inconveniente di non poco conto.