Le norme sulle assunzioni obbligatorie rientrano nel campo della legislazione c.d. sociale (o di sicurezza sociale) e cioè in quel complesso di interventi pubblici predisposti per rimuovere le situazioni di bisogno dei lavoratori.
All'interno di questo genus le norme riguardanti il collocamento obbligatorio si distinguono per la particolarità dei soggetti tutelati: questi sono lavoratori o aspiranti lavoratori appartenenti a categorie ben determinate e delimitate. Alla ristretta cerchia dei soggetti beneficiari corrisponde un forte intervento di assistenza consistente nell'obbligo a carico di datori di lavoro privati e pubblici di riservare una determinata percentuale di posti agli appartenenti a queste categorie.
Prima della legge 2 Aprile 1968 n. 482, che ha riordinato la materia, la normativa sul collocamento obbligatorio si è prodotta, non sulla base di un organico disegno pianificatore del legislatore, ma sulla spinta di istanze, urgenze e necessità contingenti; da qui una congerie di interventi sporadici, frammentari e scollegati fra di loro, da cui con difficoltà si riesce a far emergere dei principi e delle soluzioni comuni.
L'enucleazione delle categorie si conformava, di volta in volta, a due diversi intenti: a quello di offrire un'occupazione a soggetti di ridotta capacità lavorativa, e quindi sfavoriti all'interno dei meccanismi formalmente egualitari del mercato del lavoro, ed a quello di collocare, at-traverso vie privilegiate, soggetti (di piena capacità lavorativa) versanti in uno stato di particolare ed impellente bisogno. Per alcuni, quindi, (invalidi di guerra, del lavoro, per servizio ecc.) il collocamento obbligatorio costituiva la rimozione di un ostacolo, per altri (orfani di guerra, orfani dei caduti per servizio, reduci, profughi ecc.) un (giusto) privilegio .
Non uniformi erano anche le motivazioni su cui poggiava, di volta in volta, la rimozione dell'ostacolo o la concessione del privilegio: esse risiedevano generalmente in ragioni di solidarietà sociale ed assistenziale (come per i ciechi, sordomuti, ex-tubercolotici, invalidi civili ecc.), ma alcune volte si aggiungeva a loro, o si sostituiva del tutto, il debito di riconoscenza verso quei soggetti che si erano meritoriamente esposti in prima persona nella difesa di valori ed interessi socialmente riconosciuti (così per es. per gli invalidi di guerra, i reduci e , di riflesso, gli orfani e le vedove di guerra).
Genesi della normativa
La maggior parte delle normative che esamineremo si modellavano, quale più quale meno, al sistema scelto dal legislatore con la prima legge in materia, la n. 1312 del 1921 a favore degli invalidi e mutilati di guerra.
Il modello di "assistenza" della L. n. 1312/1921 non aveva precedenti ma la sua notevole carica innovativa era proporzionata alla drammaticità della situazione sociale creatasi in Italia, come in altri Paesi, all'indomani della Prima guerra mondiale.
Fu nel 1920, nella IV Conferenza Interalleata, tenutasi a Bruxelles, che venne affrontato, su iniziativa della stessa delegazione italiana, il problema del collocamento dei mutilati ed invalidi della guerra. Si affermò, in quella sede, il principio dell'occupazione obbligatoria di tali soggetti da parte delle pubbliche amministrazioni e dei privati datori di lavoro. Riguardo le modalità di attuazione da seguire in concreto, si decise di lasciare libera scelta ai singoli paesi, dovendo ciascuno di essi far ri-ferimento a differenti condizioni del mercato del lavoro ed a peculiari situazioni economico-sociali.
Per esempio paesi come U.S.A. ed Inghilterra che, in quegli anni, conoscevano una situazione d'equilibrio fra domanda ed offerta di lavoro (se non di eccesso dell'offerta di lavoro), poterono semplicemente prevedere forme di riabilitazione generica o specifica dei minorati e così assicurare loro una sostanziale pari opportunità nel concorso con soggetti, aventi invece piena capacità lavorativa.
In altri paesi al contrario, la situazione di forte disoccupazione, rendeva tali tipi di interventi non idonei ad assicurare, anche per i soggetti deboli, la partecipazione ai processi di produzione richiedendo, invece, una soluzione di carattere autoritativo (come il collocamento obbligatorio): l'introduzione cioè nei rapporti di lavoro, di una diseguaglianza formale, di un vero e proprio privilegio.
Questo sistema coattivo fu varato, fra l'altro, oltre che in Italia, anche in Francia ed in Germania, dove, per di piu', si optò per una coazione "forte" che dava allo Stato stesso la possibilità di inserire l'invalido nel personale dell'azienda del datore di lavoro inadempiente e di concludere d'imperio il contratto di lavoro. Adottando tale soluzione, in Germania si relativizzava quel principio di contrattualità, che il legislatore italiano, al contrario, continuò a considerare intangibile .
Come risulta dalla relazione alla Camera dei deputati nella seduta del 20 Giugno 1921 dell'On. Labriola, ministro proponente della legge n. 1321 , essa veniva varata in un periodo di grave disoccupazione. L'invalido, in balia delle leggi del mercato, non poteva ambire realisticamente ad un occupazione se essa stessa risultava poi lontana dalle possibilità di coloro che erano pur dotati di piena capacità lavorativa. All'esigenza di favorire l'accesso al lavoro di soggetti scarsamente richiesti dai datori di lavoro, si aggiungevano poi motivi peculiari al momento storico nel quale la legge veniva concepita. Era infatti decisivo il debito dello stato verso questi invalidi, così che si avvertiva l'esigenza di far seguire, al sentimento di gratitudine per il sacrificio offerto ed alla solidarietà per le difficoltà dell'infermità, fatti tangibili ed assunzione di oneri. D'altronde, si affermava nella relazione, era nell'interesse della stessa economia nazionale che venissero potenziate e valorizzate quelle forze lavorative che altrimenti sarebbero rimaste inutilizzate. Sempre l' On. Labriola sottolineava come gli interessi di tali soggetti non potessero essere piu' tutelati mediante la previsione delle sole attività di rieducazione, che per forza di cose sareb-bero rimaste di utilità meramente teorica e fosse, quindi, richiesta l'effettiva, autoritativa, introduzione degli invalidi di guerra nel meccanismo della produzione (introduzione coattiva che, tutto sommato, costituiva essa stessa la migliore scuola ed il miglior esercizio per la rieducazione).
Si realizzò così in Italia, in quegli anni, un sistema di assunzioni obbligatorie limitato ai militi invalidatisi nel corso degli eventi bellici, ma, una volta introdotto, il principio dell'assistenza per le vie del collocamento coattivo era destinato a trovare applicazione nei confronti di sempre piu' larghe schiere di soggetti.
Tale tendenza a ricoprire piu' situazioni possibili è del tutto coerente con l'ampiezza del raggio d'azione della legislazione sociale e del concetto giuridico di funzione di sicurezza sociale, così come riconosciuta al 1° comma dell'art. 38 della Costituzione, secondo il quale ogni cittadino inabile al lavoro e sprovvisto dei mezzi necessari per vivere ha diritto al mantenimento ed all'assistenza sociale .
L'ampliamento della sfera dei beneficiari del collocamento obbligatorio iniziò subito dopo la seconda guerra mondiale, allorché vennero emanati provvedimenti in favore degli invalidi del lavoro, dei reduci, profughi ecc. .
I principi di solidarietà proclamati dalla Costituzione e la crescita economica incentivarono la volontà diffusa nella coscienza sociale di rendere partecipi della vita produttiva del Paese i soggetti piu' sfortunati; anche le associazioni di categoria ottenevano un maggior ascolto nei palazzi della politica.
La legislazione sulle assunzioni obbligatorie conobbe quindi una progressiva estensione della sfera dei suoi beneficiari. Tale tendenza era sicuramente apprezzabile dati i motivi umanitari che la giustificavano se non fosse che spesso ad essa si accompagnò un'insufficiente attenzione da parte del legislatore alle differenze fra le varie situazioni e condizioni dei soggetti protetti ed una semplicistica sopravvalutazione della reale capacità da parte delle aziende di adempiere agli obblighi .
Gli interventi della Corte Costituzionale
Anche sulla base di quest'ultimo rilievo, successivamente all'entrata in vigore della Costituzione, vennero piu' volte avanzati dei dubbi sulla legittimità delle leggi sulle assunzioni obbligatorie. Sospetti che soprattutto vennero alimentati dalla decisione della Corte Costituzionale circa l'illegittimità dell'imponibile di mano d'opera in agricoltura . Dovette allora la Consulta intervenire in maniera chiara sulla materia , e ciò fece, avallando e legittimando i sistemi di collocamento obbligatorio già esistenti, nonché ponendo le premesse per un ulteriore attività del legislatore in tale direzione.
Le decisioni della Corte si appoggiavano, innanzitutto, sul 3° comma dell'art. 38 della Costituzione, il quale attribuiva agli inabili ed ai minorati il diritto all'educazione ed all'avviamento professionale, nonché sul 1° comma del medesimo articolo, che espressamente dichiarava il diritto al mantenimento ed all'assistenza del cittadino inabile al lavoro e sprovvisto dei mezzi necessari per vivere. Tali principi si coordinavano e si chiarivano attraverso il richiamo agli artt. 4 e 35 Cost.: essi individuavano come compito della Repubblica (e quindi principio cardine e guida dell'attività del legislatore) quello di intervenire attivamente, in primo luogo, per il riconoscimento del diritto al lavoro di tutti i cittadini (attraverso la rimozione degli ostacoli della realtà fattuale e la promozione delle condizioni necessarie ex art. 3 2° comma Cost.), in secondo luogo per la tutela del lavoro, perseguita attraverso la cura della formazione e dell'elevazione professionale dei lavoratori. Il risultato di tale combinazione di norme si specchiava, infine, nella possibilità, prospettata al 3° comma dell'art. 41 Cost., di indirizzare a fini sociali l'iniziativa economica privata. Eventualità questa comunque subordinata, innanzitutto, al rispetto del principio della libertà dell'attività economica privata (cui al 1° comma dell'art. 41 Cost.), nei confronti della quale, secondo l'opinione della Corte Costituzionale e della dottrina, era permessa l'imposizione di soli limiti negativi (esterni) e non positivi (interni). Ebbene, la legittimità costituzionale delle norme sul collocamento obbligatorio conseguiva proprio al fatto che da esse discendevano dei meri limiti negativi (esterni) alla libertà imprenditoriale. Tali norme, infatti, ponevano in essere, a carico dei datori di lavoro, non degli obblighi a contrarre, quanto dei limiti di scelta.
Ma non bastava, affinché la deroga al principio cui all'art. 41 Cost. fosse legittima, era anche necessario che, come sancito dal penultimo comma dell'art. 38 della Costituzione, il peso ed i costi effettivi della funzione assistenziale assicurata per il tramite del collocamento obbligatorio, venissero sopportati dallo Stato e non dal datore di lavoro. La Corte ritenne che anche tale condizione fosse soddisfatta, poiché il datore di lavoro otteneva pur sempre, in cambio, dal soggetto appartenente alla categoria protetta, l'utilità di una prestazione di opere. Erano, peraltro, proprio queste considerazioni circa le limitazioni ed i costi a carico degli imprenditori, ad avere indotto la Corte ad assumere una posizione specularmente opposta in occasione del vaglio delle disposizioni sull'imponibile di mano d'opera.
Detto questo, ricordiamo, comunque, i dubbi avanzati da parte della dottrina per il fatto che nessuna delle leggi in materia (con l'eccezione di quelle a favore dei centralinisti ciechi e degli invalidi civili) aveva previsto, come prodromo del collocamento, un'opera di rieducazione a carico dello Stato, così come in realtà prescritto all'ultimo comma dell'art. 38 della Costituzione. Questa scarsa attenzione alla preparazione e rieducazione professionale dell'invalido da inserire, rischiava, secondo questi Autori, di far gravare tutto il peso del collocamento sull'interesse al profitto dell'imprenditore, (espressione con la quale tale dottrina esprimeva in altri termini la libertà garantita in via assoluta al 1° comma dell'art. 41 Cost) .
Invalidi di guerra
La legge 21 Agosto 1921 n. 1312, sulle assunzioni obbligatorie degli invalidi di guerra presso le pp.aa. ed i privati imprenditori, costituì, come sopra accennato, il modello di riferimento per i successivi provvedimenti in materia di collocamento obbligatorio.
Fu introdotto dalla L. n. 1312/1921, per poi essere mutuato dalle successive leggi, il principio fondamentale dell'esclusione dai benefici del collocamento obbligatorio, da un lato di quegli invalidi che avessero perduta ogni capacità lavorativa o che per la natura ed il grado dell'invalidità avrebbero potuto recare pregiudizio alla salute e sicurezza dei compagni di lavoro ("massimi invalidi") (la legge n. 375/1950 avrebbe aggiunto il rischio per l'integrità degli impianti), dall'altro di quegli invalidi che avessero riportato determinate lesioni od infermità di tale tenuità da non giustificare il trattamento privilegiato ("minimi invalidi")(art. 2).
Comunque il datore di lavoro che spontaneamente avesse occupato invalidi non aventi diritto ai benefici di legge, per aver perduta ogni capacità lavorativa, aveva facoltà di conteggiarli nella percentuale degli invalidi che era tenuto ad occupare nell'azienda (art. 3 regolamento per l'applicazione R.D. 29 Gennaio 1922 n. 92).
La legge in esame, come quelle successive, poneva come destinatario dell'obbligo e punto di riferimento per il calcolo del limite dimensionale il datore di lavoro.
Alcuni autori notarono come, onde evitare conseguenze illogiche nell'applicazione della legge, fosse necessario interpretare restrittivamente l'espressione "datore di lavoro", e leggere in essa il solo significato di impresa, vero soggetto del diritto commerciale, sindacale e del lavoro . Di diverso avviso erano coloro che, in assenza di specifiche determinazioni legislative, non ravvisavano motivo a restringere la cerchia di soggetti obbligati e comprendevano quindi fra i destinatari dell'obbligo anche i privati datori di lavoro non imprenditori .
La legge del 1921 pose anche il principio dell'esonero dall'obbligo di assunzione delle aziende che, per le loro speciali condizioni, non fossero state nella possibilità di occupare invalidi (art. 12) e dei datori di lavoro che esercitavano lavorazioni a carattere stagionale o di breve durata per un periodo non superiore a tre mesi (art. 10 reg.). La legge n. 375 del 1950, in seguito, permise la riduzione dell'obbligo in favore degli imprenditori che occupavano in prevalenza personale femminile (art. 14 2° comma).
Nella dottrina si dubitò dell'opportunità di quest'ultima agevolazione, tenuto conto che proprio nelle imprese esercitanti lavorazioni leggere, come quelle a prevalenza di personale femminile, piu' facile poteva apparire l'inserimento di un lavoratore invalido. Per questo venne anche suggerita una lettura restrittiva della norma di favore, considerando beneficiate quelle imprese in cui la prevalenza del personale femminile fosse strettamente conseguente alla natura dell'attività in esse esercitata, tanto da palesare come accessorio il lavoro maschile nell'impresa .
La procedura che l'interessato al collocamento obbligatorio doveva rispettare iniziava con l'iscrizione nei ruoli provinciali di invalidi aspiranti al collocamento tenuti presso le rappresentanze provinciali dell'Opera nazionale degli invalidi di guerra e presso gli organi del collocamento.
Con la L. legge 3 Dicembre 1925 n. 2151, vennero soppressi gli organi del collocamento preesistenti e l'assunzione obbligatoria degli invalidi di guerra divenne di competenza esclusiva delle rappresentanze provinciali dell'Opera nazionale invalidi di guerra.
Il diritto all'iscrizione nei ruoli spettava ai soli invalidi disoccupati (art. 13 reg.) ma la successiva legge n. 375/1950 avrebbe aperto la possibilità di iscriversi anche agli invalidi già occupati.
La documentazione che l'invalido doveva presentare ai fini dell'iscrizione doveva certificarne che il grado di invalidità era compreso nei limiti massimo e minimo stabiliti dalla legge.
Il sistema della legge del 1921, analogamente a quello previsto dalla L. n. 482/1968, non tutelava l'invalido nella fase della richiesta della documentazione necessaria ai fini dell'iscrizione: in caso di erronea valutazione dell' Ufficiale Sanitario il prestatore di lavoro non aveva possibilità di chiedere il giudizio del Collegio medico provinciale. L'esclusione dalle liste provinciali dei collocabili si configurava quindi senza rimedio. Al contrario, nel caso fosse stato il datore di lavoro a lamentare l'erronea valutazione dell' Ufficiale Sanitario, il riesame era possibile ex art. 31 reg. Tale disparità venne eliminata dal regolamento della successiva L. n. 375 del 1950 che concesse all'invalido la facoltà di ricorrere al collegio medico in caso di valutazione negativa dell'Ufficiale sanitario (art. 6 D.P.R. 18 Giugno 1952 n. 1176).
Si richiedeva, anche, ai fini dell'iscrizione, l'esibizione di documenti atti a dimostrare le attitudini lavorative o professionali dell'invalido, anche in relazione all'occupazione cui aspirasse: l'interesse per la qualificazione professionale conseguita dall'invalido terminava qui (e lo stesso avviene con la normativa attualmente in vigore).
Le decisioni in ordine alle domande d'iscrizione competevano alla rappresentanza provinciale dell'Opera.
Una volta concessa l'iscrizione veniva rilasciata all'invalido una tessera personale. Questa era idonea a documentare e comprovare ufficialmente (esonerando l'imprenditore da ogni responsabilità a riguardo) la presenza nell'invalido di tutti i requisiti richiesti per beneficiare degli effetti di legge. In essa erano riportati, tra l'altro. il grado di educazione professionale conseguita e il grado di capacità lavorativa generica e specifica (art. 6).
Il sistema di collocamento obbligatorio posto in essere consisteva fondamentalmente nell'imposizione ai datori di lavoro dell'obbligo di rispettare un rapporto percentuale, di riservare, cioè, una quota dei posti dell'azienda a soggetti appartenenti alla categoria protetta.
Una via per adempiere agli obblighi di legge era quella dall'assunzione diretta. I datori di lavoro (art. 13 1° comma) avevano la facoltà di coprire il posto riservato con un invalido scelto liberamente all'interno degli elenchi oppure indipendentemente da questi. L'invalido che veniva così assunto doveva essere in possesso della documentazione comprovante la sussistenza dei requisiti richiesti dalla legge per beneficiare delle disposizioni sul collocamento obbligatorio. Le rappresentanze provinciali dell'Opera avevano il compito di controllare la regolarità delle assunzioni in tal modo effettuate e, in caso di accertamento di violazioni, fissare all'imprenditore un termine, non superiore ad un mese, entro il quale porsi in regola con le norme di legge (art. 18 reg.). Se optava per l'assunzione diretta il datore di lavoro poteva rivolgere la propria scelta anche verso quegli invalidi che non erano destinatari delle norme del collocamento obbligatorio perché privi della capacità lavorativa e conteggiarli ai fini del raggiungimento della percentuale prescritta (art. 3 reg.).
L'altra via per adempiere all'obbligo era quella delle assunzioni effettuate per il tramite delle rappresentanze provinciali dell'Opera (artt. 19 e 22 reg.). Queste inviavano, agli imprenditori che ne facevano richiesta, un elenco del personale invalido disponibile nel luogo di lavoro e località viciniori.
Il ricorso a questi organi, da facoltativo che era, diveniva obbligatorio nei casi in cui il datore di lavoro non riusciva a coprire per via diretta il numero dei posti riservati (art. 20 reg.).
La procedura per l'avviamento del minorato (che sarebbe poi stata, nella sostanza, confermata dalla successiva legge del 1950 n. 375) era tale da far escludere alla dottrina che dall'iscrizione nel ruolo scaturisse un diritto all'assunzione obbligatoria. La non vincolatività degli elenchi, la possibilità di assunzione diretta da parte del datore di lavoro, portavano necessariamente a concludere per un semplice valore di autorizzazione preventiva dell'iscrizione. Questa era prevista al solo fine di agevolare il datore di lavoro nell'esecuzione dell'obbligo e di prevenirlo dal rischio di una scelta illecita. Agli stessi organi preposti al collocamento speciale era riservato dalla legge un ruolo non determinante. Queste si limitavano a svolgere un'attività preventiva al collocamento vero e proprio (di identificazione dei soggetti beneficiari) ed una ad esso successiva (di controllo del rispetto delle percentuali prescritte) . Non essendo possibile configurare un diritto soggettivo dell'invalido, tutto il sistema del collocamento obbligatorio si riduceva, in ultima analisi, ad un obbligo sanzionato penalmente.
Tale opinione non era da tutti condivisa: la dottrina era divisa circa la natura delle limitazioni imposte alla libertà negoziale del datore di lavoro. Soprattutto ci si chiedeva quanto effettivo potere avessero gli organi del collocamento di inserire l'invalido nell'impresa nonostante l'inerzia dell'imprenditore.
Poiché la questione è stata affrontata anche di recente e piu' o meno nei medesimi termini, non ci sembra il caso di soffermarci a lungo su momenti ormai lontani di questo dibattito.
Ci limitiamo a dire che, ad avviso della maggiore dottrina e giurisprudenza, queste leggi non facevano intravedere la possibilità di un intervento degli organi del collocamento in grado, in caso di rifiuto di contrarre da parte del datore di lavoro, di costituire autoritativamente il rapporto di lavoro (come invece avveniva per le leggi tedesche sulle assunzioni obbligatorie): le leggi italiane ponevano in essere un semplice obbligo a contrarre a carico dell'imprenditore e lasciavano integra la natura negoziale del rapporto di lavoro, cosicché, in caso di rifiuto da parte del datore di lavoro di concludere il contratto con l'invalido, non era possibile instaurare altrimenti il rapporto e scattava la sola, indiretta, coazione a contrarre costituita dalla sanzione penale .
Un discorso a parte, però, dovrà essere fatto quando esamineremo le leggi sul collocamento obbligatorio dei privi della vista, mentre, a proposito degli invalidi del lavoro, ricorderemo i problemi intepretativi suscitati a riguardo dal D.Lgs.C.p.S. n. 1222.
Una volta costituito il rapporto di lavoro era possibile verificare che l'inserimento del minorato nell'azienda non recasse pregiudizio all'ambiente di lavoro: il prestatore di lavoro invalido o il datore di lavoro (e quest'ultimo anche prima dell'insaturazione del rapporto, in forza dell'art. 31 del regolamento) potevano, in ogni tempo, chiedere una visita collegiale di controllo per accertare le condizioni dell'invalido al fine di comprovare che l'invalido, per la natura ed il grado della sua mutilazione o invalidità e per le sue condizioni di salute non potesse riuscire di pregiudizio alla salute e sicurezza dei compagni di lavoro (art. 5). La visita veniva svolta da un apposito Collegio Medico provinciale.
Altre leggi sul collocamento obbligatorio prevederanno un organo con funzioni del genere e, ogni volta, faranno in modo che in esso vengano rappresentati sia gli interessi dei datori di lavoro, che quelli dei prestatori di lavoro, che, infine, quelli degli appartenenti alla categoria protetta. Le decisioni di questi collegi medici, se favorevoli all'invalido, attribuivano a questo il diritto ai salari perduti per l'allontanamento disposto dal datore di lavoro, in attesa del giudizio del collegio (art. 31 reg.).
La dottrina e la giurisprudenza ebbero modo di precisare come dall'obbligo di occupare predisposto dalla legge in esame e dalle seguenti, non scaturisse l'inamovibilità dell'invalido, rimanendo la facoltà di recesso ad nutum del datore di lavoro, intatta da ogni limitazione .
Per forza di cose, ogni volta che ricorre un obbligo di contrarre si affianca ad esso una predeterminazione del contenuto, e diversamente non poteva essere in materia di assunzioni obbligatorie. Per questo la legge prescriveva al datore di lavoro di applicare agli invalidi di guerra le normali condizioni di assunzione dell'azienda, nonchè, una volta istituito il rapporto, le normali condizioni di lavoro (art. 16).
Questo principio dell'uniformità del trattamento economico e normativo verrà poi confermato dalle leggi sul collocamento obbligatorio emanate a seguito di quella in esame, tanto da far ritenere a parte della dottrina che questo costituisse un principio generale da riconoscersi implicitamente anche nel silenzio della legge .
L'invalido collocato continuava a godere del trattamento di pensione di cui eventualmente avesse beneficiato, qualunque fosse il grado della rieducazione conseguita o l'occupazione per la quale fosse stato assunto (e sempre restando fermo il diritto a percepire l'intera retribuzione spettante al personale esercitante la medesima funzione) .
La legge 3 Giugno 1975 n. 375 estese i benefici del collocamento obbligatorio anche agli invalidi civili di guerra, i non militari, cioè, che avevano riportato un invalidità o una minorazione per fatto bellico.
Ciò, in realtà, era già nelle intenzioni del legislatore al momento in cui emanò il D.L.C.p.S. 2 Marzo 1948 n. 135 (rat. L. 3 Novembre 1952 n. 1790). Per un errore di coordinamento delle leggi, però, l'estensione non potè avere ad oggetto il collocamento obbligatorio.
Tale estensione fu osteggiata, durante i lavori parlamentari, dai militari invalidi di guerra, i quali invocavano una sorta di diritto nativo nei confronti dello Stato, tale da porli in una posizione giuridica non raffrontabile con quella degli invalidi civili di guerra. Si sosteneva che i militari invalidi dovevano l'infermità o la mutilazione per l'adempimento di un dovere e che quindi piu' di altri avevano diritto ad un atto di riconoscenza da parte dello stato.
Ad essi si rispondeva che non vi era motivo di disconoscere un diritto nativo al risarcimento verso lo stato anche a coloro che, nelle fabbriche, nelle città, avevano continuato a svolgere un'attività lavorativa, a rendersi utile, ad esporsi nonostante i rischi dei bombardamenti e gli eventi di una guerra che colpiva, crudelmente e senza discriminazioni. Si poteva anzi affermare che tale diritto spettasse in maggiore misura ai civili, i quali non erano obbligati a porre a repentaglio la propria persona, come invece i militari.
L'urgenza di un provvedimento legislativo ed il senso di solidarietà che i drammi vissuti avevano generato nella nazione, fece sì che fossero superate le remore dell'Associazione Nazionale degli invalidi e soprattutto dei datori di lavoro (preoccupati, a loro volta, per il calo di produttività che le imposizioni legislative avrebbero potuto comportare), si che nella stessa legge del 1950 furono contemplati come destinatari della tutela anche gli invalidi civili per fatto di guerra, pur se con distinte percentuali nella riserva dei posti (in un modo o nell'altro, comunque, la tutela disposta dalla legge del 1950 veniva ad interessare anche altre categorie ).
La legge n. 375/1950 enfatizzò piu' della precedente l'aspetto della effettiva qualificazione professionale dell'invalido.
Gli imprenditori di aziende con non piu' di 20 dipendenti avevano la facoltà di dimostrare l'assoluta impossibilità di utilizzare il minorato perché non provvisto del requisito professionale minimo indispensabile per il genere di lavoro, principale o ausiliario, praticato nell'azienda. In tal caso l'assunzione poteva essere rimandata per un periodo di 180 giorni, in attesa che fra i minorati si rendessero disponibili elementi piu' idonei (art. 3 3° comma reg.).
Così come il regolamento per l'applicazione della legge del 1921 n. 1312, anche il regolamento per l'esecuzione della legge del 1950 all'art. 3 stabiliva che l'invalido che avesse voluto avvalersi delle disposizioni della legge, inoltrando la domanda per l'iscrizione nei ruoli, avrebbe dovuto trovarsi nella condizione di disoccupato.
Una parte della dottrina notò come la norma richiedesse, indubbiamente un'interpretazione non strettamente letterale, onde superare il contrasto con il dettato dell'art. 43 del regolamento, in forza del quale lo stato di occupazione non avrebbe infirmato il diritto dell'invalido a fruire dei vantaggi disposti dalla legge nei concorsi e nelle assunzioni: l'art. 3 rendeva necessario il requisito della disoccupazione al solo fine dell'iscrizione nelle liste, onde finalizzare l'opera di collocamento espletata dalle rappresentanze alla tutela di quegli invalidi maggiormente bisognosi. Secondo questa dottrina, ciò non escludeva che attraverso le assunzioni dirette anche l'invalido già occupato potesse comunque beneficiare della tutela di legge, in conformità a quanto previsto all'art. 10 della legge n. 264 del 1949, per il quale potevano ottenere l'iscrizione nelle liste di collocamento anche i lavoratori occupati in cerca di altra occupazione. A completamento di queste argomentazioni si osservava come l'invalido già occupato, nel fruire dei benefici della legge, lasciava scoperto un posto che, comunque, sarebbe pur sempre spettato ad un invalido.
Il Consiglio di Stato risolse la questione affermando che, ai fini dell'iscrizione nei ruoli, non era necessario certificare lo stato di disoccupazione. Il Consiglio di Stato asserì che lo stato di disoccupazione era da intendersi in senso, non astratto ed oggettivo, ma relativo e soggettivo, riferito cioè all'occupazione cui aspirava l'invalido (che, beninteso, poteva anche essere, come nel collocamento ordinario, un'occupazione diversa da quella già praticata).
La legge del 1950 conteneva nel regolamento d'esecuzione (art. 28) il primo esempio di "scorrimento" fra i diversi beneficiari: qualora, infatti, il datore di lavoro non avesse coperto la percentuale prescritta grazie ad esonero o per forza di mancanza di invalidi del lavoro da collocare, questi era tenuto a raggiungere detta aliquota, comunque, attraverso l'assunzione di tanti orfani di guerra quanti erano gli invalidi di guerra non assunti.
Con l'art. 8 del regolamento di esecuzione si provvedeva, infine, al necessario coordinamento fra gli organi provinciali dell'Opera nazionale ed i corrispondenti Uffici di collocamento. In base all'art. 9 della legge sul collocamento del 29 Aprile 1949 n. 264, infatti, i mutilati e gli invalidi di guerra, i mutilati ed invalidi del lavoro, nonché i lavoratori dimessi dai luoghi di cura per guarigione clinica da affezione tubercolare avevano acquisito il diritto all'iscrizione nelle liste di collocamento tenute presso gli Uffici del lavoro. La legge n. 264 sul collocamento prescriveva, ai fini dell'inserimento nelle liste, la qualificazione per professioni e per mestieri. Questa era affidata alle apposite commissioni previste dalle leggi speciali, che nel caso in esame si identificavano con le rappresentanze provinciali dell'Opera.
Importante innovazione era quella introdotta dal 2° comma dell'art. 20 del regolamento di esecuzione il quale disciplinava, opportunamente, la questione della computabilità o meno, ai fini dell'adempimento agli obblighi di legge, dei lavoratori assunti invalidi e guariti nel corso del rapporto. Con tale norma, pur non istituendosi un diritto soggettivo in favore dell'invalido non piu' tale (e cioè restando nei limiti di una mera facoltà concessa al datore di lavoro), si rendeva probabile la sua permanenza in servizio, stante l'interesse del datore di lavoro ad evitare avvicendamenti di personale, soprattutto qualora si fosse trattato di sostituire un elemento, professionalmente addestrato e fisicamente valido, con un altro non avente tali requisiti.
Le norme regolamentari introdussero un principio anch'esso fatto proprio dalla successiva legge generale: esse attribuirono all'invalido la possibilità di adire il Collegio medico onde valutare la compatibilità della mansioni assegnategli dal datore di lavoro con le proprie condizioni fisiche (art. 14 reg.). In caso di giudizio favorevole all'invalido, il datore di lavoro era obbligato ad assegnarlo ad un'occupazione compatibile con le sue condizioni fisiche.
Si voleva, così, porre rimedio all'eventualità di arbitrarie e dannose scelte da parte del datore di lavoro, ma le norme non mancarono di suscitare dubbi di illegittimità per esubero rispetto alle previsioni della legge .
Con la legge 5 Marzo 1963 n. 367 il legislatore operò profonde e sostanziali modifiche alle norme previste dalla legge 3 Giugno 1950 n. 375. La piu' rilevante era quella relativa alle modalità del collocamento obbligatorio: a parte i diversi organi interessati la soluzione adottata dalla legge del 1963 sarebbe stata fatta propria dalla successiva legge generale n. 482/1968.
Le leggi del 1921 che quella del 1950 lasciavano all'imprenditore, ai fini dell'adempimento dell'obbligo di assunzione, la scelta fra il ricorso alle liste presso le rappresentanze provinciali dell'Opera e l'assunzione diretta. L'iscrizione nel ruolo dell'invalido costituiva una sorta di autorizzazione preventiva a favore del datore di lavoro, facilitato, così, nell'adempimento degli obblighi di legge ed esonerato dalle responsabilità e dalle difficoltà proprie dell'accertamento del possesso da parte del prestatore di lavoro delle qualità richieste.
Con le modifiche apportate dalla legge del 1963 il ricorso alle liste, da facoltativo che era, diveniva obbligatorio e l'iscrizione in esse diveniva per l'invalido presupposto imprescindibile per il godimento del trattamento privilegiato (art. 4): il datore di lavoro poteva procedere alle assunzioni prescritte solo tramite richiesta numerica rivolta alle rappresentanze provinciali dell'Opera, le quali avrebbero, quindi, scelto negli elenchi gli iscritti da avviare.
La dottrina e la giurisprudenza ebbero modo di chiarire come l'ulteriore limite alla libertà dell'imprenditore costituito dall'obbligo della richiesta numerica non fosse comunque sufficiente, così come nel collocamento ordinario, a far intravvedere l'imposizione di un'obbligo a contrarre, nè era possibile parlare di un diritto soggettivo all'assunzione in capo all'invalido iscritto nel ruolo: all'inadempimento dell'obbligo di riserva dei posti conseguiva sempre e comunque la mera inflizione della sanzione penale.
La legge del 1963 (e così farà anche quella del 1968) concedeva, comunque, al datore di lavoro di effettuare richiesta nominativa nei casi in cui con l'assunzione obbligatoria avesse dovuto assegnare alcuni tipi di mansioni tassativamente indicati. Ma anche nel caso di richieste nominativa il datore di lavoro era comunque tenuto ad attingere dagli elenchi tenuti presso le rappresentanze provinciali dell'Opera.
Invalidi del lavoro
Il D.L.C.p.S. del 3 ottobre 1947 n.1222 (ratificato con legge 9 Aprile 1953 n. 292) realizzò un sistema di collocamento obbligatorio nelle imprese private a favore dei mutilati ed invalidi del lavoro.
Secondo l'avviso di un certo orientamento dottrinale il sistema così istituito ricalcava quello previsto dalla normativa a favore degli invalidi di guerra. Secondo il pensiero di altri, invece, il decreto, nonostante le indubbie analogie con quelle leggi, presentava spiccate differenziazioni di disciplina rispondenti all'intervenuta evoluzione del sistema del collocamento .
V'era, infine, chi, nella dottrina, affermava che il decreto ponesse in essere una procedura per le assunzioni obbligatorie del tutto originale .
Il provvedimento in questione, in realtà, si caratterizzò, piu' che altro, per un eccesso di laconicità (riguardo, peraltro punti non secondari della disciplina). Le sue lacune costrinsero la giurisprudenza ad un'opera di interpretazione creativa procedente, per forza di cose, in modo empirico, incerto e, spesse volte, contraddittorio. L'infelice tecnica di redazione adottata offrì lo spunto per la proposizione della questione di legittimità costituzionale del decreto, per contrasto con gli artt. 3, 38, 41 e 42 della Costituzione; la Corte Costituzionale si pronunciò per la legittimità del decreto e dei sistemi di collocamento obbligatorio in generale .
Ai fini del raggiungimento della percentuale prescritta dal decreto, il datore di lavoro poteva tener conto degli invalidi del lavoro che egli avesse assunto già prima dell'entrata in vigore del decreto (art. 1 3° comma). Questi, per la prevalente dottrina e giurisprudenza, dovevano riportare un'invalidità non inferiore al 40 per cento (quella cioè richiesta ai fini dell'ammissione al collocamento obbligatorio), onde evitare troppo agevoli e generalizzate coperture delle quote d'obbligo. A fare le spese dell'adozione di questa soluzione interpretativa erano, però, gli invalidi c.d. "minori" eventualmente già assunti, i quali, benché di maggiore efficienza lavorativa, non risultavano, in realtà, utili al datore ai fini del raggiungimento della percentuale prescritta e venivano così a correre il concreto rischio del licenziamento.
Dottrina e giurisprudenza dovettero anche affrontare il problema della computabilità o meno del lavoratore minorato che in costanza del rapporto avesse superato il limite d'età o quello minimo di riduzione della capacità lavorativa al di sopra dei quali non è possibile usufruire del collocamento agevolato. Dalla parte della tesi negativa, accolta dalla Cassazione , v'erano ragioni di logica giuridica, forse eccedenti in rigidità ed astrattezza. Dall'altra parte la dottrina, che argomentava a favore della computabilità di tali soggetti, sulla scorta di molteplici considerazioni: si constatava, per esempio, come fosse da ritenersi maggiore l'invalidità di un minorato che fosse anche anziano, si affermava, poi, la presumibilità di un trattamento di benevolenza del legislatore nei confronti del datore che, ancor prima dell'esistenza del decreto, avesse adempiuto spontaneamente all'obbligo di assunzione . Infine, la dottrina sottolineava la difficile quantificazione del parametro della "riacquistata capacità lavorativa"; si affermava che la valutazione di questo "recupero" non poteva effettuarsi, semplicemente, su di un piano astratto, ma, piu' problematicamente, con riferimento concreto a quell'ambiente di lavoro in cui esso si era manifestato . Si aggiungevano, naturalmente, considerazioni squisitamente umanitarie a favore dei minorati anziani e l'amara constatazione che, seguendo l'orientamento della Cassazione, si finiva cinicamente col punire quell'invalido che, spesso meritoriamente ed a costo di molteplici sacrifici, era riuscito a rimpossessarsi di parte dell'abilità lavorativa perduta .
Le Sezioni dell'A.N.M.I.L. erano preposte alla compilazione del ruolo dei mutilati ed invalidi collocabili ed erano tenute ad inviare trimestralmente copia di esso all'Ufficio provinciale del lavoro nonché alla sede centrale dell'assicurazione. Finivano qui i compiti dell'associazione mutilati ed invalidi. Ad essa, stante la sua natura privatistica, fu riservato un ruolo secondario.
Era la Commissione, invece, e quindi lo stesso Ufficio provinciale del lavoro (la cui competenza derivava anche dalla legge sul collocamento ordinario) a presiedere al collocamento speciale ed, in effetti, a provvedere alla formazione dei ruoli tenuti presso le sezioni. Infatti secondo l'art. 4 la Commissione aveva il compito di dichiarare l'idoneità al lavoro dei mutilati ed invalidi, distinguendoli per categorie professionali, e di presiedera al loro collocamento.
L'art. 4 usava, a quest'ultimo proposito, l'espressione "e ne cura il collocamento". Ora, non solo sfuggiva il significato di tale passo del decreto, ma risultava non molto chiaro altresì, il rapporto che intercorreva fra la valutazione dell'A.N.M.I.L e quella della Commissione, quale delle due fosse decisiva, e, nell'eventualità avesse dovuto esserlo quella della Commissione, perché fra i suoi membri non comparisse neanche un medico.
La soluzione della questione circa il senso dell'espressione "e ne cura il collocamento", era strettamente collegata a quella riguardante la situazione giuridica degli iscritti nei ruoli (l'art. 2 parlava, a proposito di questi, di un "diritto ad essere assunti"). Ebbene: secondo alcuni, curare non significava né imporre né provvedere ma semplicemente attribuire all'iscritto una qualificazione che, lungi dall'investirlo di un diritto all'assunzione, rendeva quest'ultima idonea ai fini della copertura della percentuale prescritta di posti riservati. Secondo altri , l'espressione "e ne cura il collocamento" doveva essere intesa come richiamo ai poteri e funzioni attribuite dalla n. 264 del 1949 agli Uffici del collocamento. Con riferimento a quella legge dovevano, quindi, sia determinarsi i casi in cui il datore di lavoro era tenuto alla richiesta nominativa o numerica, sia chiarire la situazione giuridica dell'iscritto nelle liste. Venendo così ad operare i principi in materia di collocamento ordinario dall'inserimento nelle liste sarebbe dovuta derivare in favore del minorato iscritto solamente una posizione di mero interesse ed aspettativa; dall'avviamento però sarebbe disceso un vero e proprio diritto all'assunzione. Questa era anche la conclusione cui pervenne, in seguito a ripetute oscillazioni, la Cassazione.
In caso di rifiuto di assunzione il lavoratore avviato dalla Commissione aveva quindi diritto ad un risarcimento del danno. Questo era escluso nel caso che il datore di lavoro, fornendo la prova dell'erroneità del giudizio della Commissione, non avesse motivato il rifiuto d'assunzione rilevando la presenza nell'invalido designato di quelle condizioni che ne avrebbero giustificato l'immediato licenziamento .
Ricordiamo, comunque, che prima di pervenire a questo orientamento circa la situazione giuridica soggettiva dell'avviato, la giurisprudenza, dopo una serie di decisioni contraddittorie, era giunta ad attribuire alla Commissione addirittura un potere di collocamento d'ufficio del lavoratore invalido .
La dottrina dubitò subito della razionalità di tale soluzione, soprattutto per il fatto che, non essendo previsto dal decreto la possibilità di inserire le ragioni del datore all'interno di questo procedimento d'avviamento tutto amministrativo, si rendevano inevitabili successive contestazioni e liti, e si rischiava di trascurare le situazioni peculiari di ogni singola azienda (sebbene all'interno dello stesso orientamento giurisprudenziale tali esigenze fossero state comunque considerate e, per fare un esempio, argomentando dalla distinzione fra sessi prevista dall'art. 7 si affermò il diritto del datore di lavoro a che la Commissione tenesse conto, nell'invio di personale, del rapporto esistente fra lavoratori uomini e donne all'interno dell'azienda) .
Era data facoltà ai datori di lavoro di risolvere il rapporto (art. 5), qualora, a giudizio dell'Istituto nazionale infortuni sul lavoro e dell'Ispettorato del lavoro, fosse risultato un aggravamento dell'invalidità, tale da impedire al lavoratore di prestare le mansioni per le quali era stato assunto.
I dubbi della dottrina nascevano dal fatto che di questo necessario legame fra la continuazione del rapporto e le mansioni affidate al momento dell'assunzione, non era dato rinvenire traccia nel sistema della legge. Le critiche si rafforzavano se si ricordava che implicito presupposto della legge era l'imposizione al datore di lavoro dell'onere di ricerca delle mansioni piu' rispondenti alle caratteristiche del lavoratore invalido. Concludendo diversamente, si sarebbero potute offrire comode scappatoie dagli obblighi di legge.
La risoluzione era possibile anche quando l'Ispettorato avesse accertato la perdita totale della capacità lavorativa o il possibile pregiudizio per la salute ed incolumità dei compagni di lavoro e la sicurezza degli impianti. Anche nel caso del rischio connesso all'impiego del minorato la dottrina non potè non rilevare come il suo sorgere sarebbe potuto dipendere, in molti casi, da scelte errate dell'imprenditore e come, quindi, fosse assurdo far nascere da ciò un via libera al licenziamento.
Secondo un altro orientamento dottrinale, peraltro conforme alla giurisprudenza della Cassazione, l'art. 5 non individuava le uniche cause possibili di risoluzione del rapporto con l'invalido del lavoro, ma ne aggiungeva di speciali a quelle d'ordine generale. Quindi, non restringendo le ipotesi di licenziamento e lasciando salva la facoltà di recesso ad nutum dell'imprenditore (fermo però l'obbligo di assumere un altro invalido a copertura del posto riservato), l'art. 5 era ben lungi dal voler costruire per l'invalido (come inizialmente aveva affermato qualche giuduce di merito) una situazione giuridica di diritto alla conservazione del posto o ad una durata minima del rapporto di lavoro e lasciava, invece, inalterata la facoltà del datore di lavoro di recedere ad nutum .
Non era chiaro se dal licenziamento per queste vie ottenuto derivasse o meno una incollocabilità assoluta dell'invalido. Non era neanche pacifico se, come si era affermato in giurisprudenza , il datore di lavoro avrebbe potuto invocare il giudizio dell'Ispettorato circa il ricorrere delle condizioni cui all'art. 2, prima dell'instaurazione del rapporto, al fine di rifiutare l'assunzione. Avallando questa ipotesi interpretativa si sarebbe potuto configurare il tutto come una vera e propria procedura di annullamento per vizi di merito dello stesso atto amministrativo di assegnazione.
Seguì la legge 14 Ottobre 1966 n. 851, la quale fra l'altro adotto quel principio dello scorrimento, già adottato dal legislatore in precedenza: qualora non vi fossero stati invalidi del lavoro da collocare le pp.aa. e le aziende private individuate all'art.1 del D.L.C.p.S. 1222/1947 erano tenute a coprire la percentuale d'obbligo con orfani e vedove di caduti sul lavoro, cui peraltro la legge espressamente estendeva le norme allora vigenti per l'ammissione agli impieghi ed il collocamento obbligatorio degli orfani e vedove di guerra (fermo restando il rispetto delle aliquote cui alla L. n. 1228/1965 concernente provvedimenti in favore delle vedove e degli orfani di guerra e delle vedove e degli orfani dei caduti per causa di servizio).
Per quanto riguardava le assunzioni presso le pp.aa. la legge introduceva un meccanismo di scorrimento, ancora piu' "evoluto", che considerava tutte le categorie protette (art. 15).
Reduci
A differenza delle leggi sul collocamento obbligatorio degli invalidi di guerra, le norme sull'assunzione obbligatoria dei reduci si motivavano con l'esigenza di fornire un sostegno a soggetti di piena capacità lavorativa e quindi con normali opportunità di accedere ad un impiego. Se lo Stato interveniva in favore di questa categoria di disoccupati e non di altre, ciò avveniva, in primo luogo per rimuovere, o almeno alleviare, la gravità e drammaticità delle condizioni di bisogno in cui essi versavano e, in secondo luogo, in ragione della peculiarità della causa stessa dello stato di indegenza.
Le difficoltà che i reduci incontravano trovavano origine, come per gli invalidi di guerra, dalle drammatiche conseguenze del secondo conflitto mondiale: una tragedia collettiva che rendeva imprescindibile l'esigenza di un interessamento diretto e di un sostegno concreto da parte dei pubblici poteri. Il fatto che i collocabili godessero di piena capacità lavorativa, faceva sì che non occorresse per loro apprestare quegli accertamenti sull'idoneità al lavoro tipici delle norme a favore degli invalidi, nè di inserire nella procedura attività di organi differenti da quelli del collocamento ordinario.
Il primo provvedimento in materia fu il D.L.Lgt. 4 Agosto 1945 n. 453.
Ai reduci non era riservata una aliquota dei posti disponibili nelle aziende obbligate ma una percentuale, piuttosto elevata (50 %), delle nuove assunzioni. L'obbligo era, naturalmente temporaneo e valeva solo per i due anni successivi all'entrata in vigore del decreto (lo stesso valeva per le pp.aa.).
Per beneficiare della riserva a favore della categoria, il reduce doveva possedere l'idoneità richiesta per l'impiego (art. 3).
Il decreto legislativo luogotenenziale 14 Febbraio 1946 n.27 che seguì, subordinava il trattamento privilegiato alla condizione che il reduce fosse sprovvisto dei mezzi indispensabili per il mantenimento proprio o della famiglia con lui convivente ed adottò il metodo previsto dalle leggi sul collocamento obbligatorio di riservare ai soggetti protetti una quota del personale in servizio presso le aziende (per effetto dell'art 1 del successivo D.L.Lgt 5 Marzo 1946 n. 81 i Prefetti vennero autorizzati ad aumentare con propria ordinanza, in caso di necessità, l'aliquota delle assunzioni presso le aziende private, in relazione alle esigenze locali).
Ad occuparsi del collocamento obbligatorio dei reduci erano gli Uffici del lavoro in accordo con gli Uffici provinciali per l'assistenza postbellica ad essi il datore di lavoro poteva rivolgere richiesta nominativa.
Il decreto si preoccupava, anche, di garantire la stabilità dell'occupazione raggiunta obbligatoriamente dal reduce ed imponeva ai datori di lavoro un divieto di licenziamento dei soggetti assunti in forza delle sue disposizioni (art. 6 1° comma). Il divieto cessava trascorso un anno dall'assunzione o dalla riassunzione e non riguardava comunque i licenziamenti dovuti a giusta causa o a cessazione dell'attività dell'azienda.
Aggiungiamo che, in forza del successivo R.D.Leg. 30 Maggio 1946 n. 479, venne stabilito che, nei licenziamenti per esuberanza di personale, i reduci potessero essere inclusi solo nella misura del 50 per cento.
In seguito vennero emanate leggi di proroga dell'efficacia del D.L.Lgt. del 1946 n.27. Alcune di queste dovevano disporre retroattivamente perché emanate successivamente allo scadere dell'efficacia delle precedenti, ponendo problemi circa la sorte dei licenziamenti effettuati nel periodo intermedio. L'ultima legge in materia fu la 12 Giugno 1955 n. 511, la quale prolungò l'efficacia delle precedenti fino al 31 Dicembre 1955.
Addetti alla bonifica campi minati
Agli addetti alla bonifica dei campi minati vennero estesi i benefici previsti per le altre categorie in ordine al collocamento obbligatorio:
se avevano prestato servizi particolarmente rischiosi usufruivano delle disposizioni allora vigenti a favore dei reduci di guerra (art. 10 1° comma D.L.Lgt. 12 Aprile 1946 n. 320);
se nell'espletare queste operazioni, fossero divenuti invalidi beneficiavano le norme di protezione ed assistenza previste per i mutilati ed invalidi di guerra (art. 10 2° comma D.L.Lgt. 12 Aprile 1946 n. 320);
con il D.L.C.p.S. 1 Novembre 1947 n. 1768 si estesero alle vedove ed agli orfani degli addetti alle operazioni di bonifica di immobili minati, deceduti in seguito a lesioni incontrate nell'espletamento di queste operazioni, tutte le norme di assistenza e protezione previste per le vedove e gli orfani di guerra (art. 1).
Profughi
Gli eventi bellici ed il processo di decolonizzazione, produssero nel nostro paese dei notevoli flussi di migrazione. Coloro che tornarono in Italia come profughi lo fecero per cause di forza maggiore ed in condizione di estrema precarietà; da qui l'esigenza di un sostegno da parte della collettività, motivato peraltro dal senso di riconoscenza per chi aveva tenuto alto il prestigio della nazione in terra straniera .
Dopo i primi provvedimenti che, semplicemente estesero ai profughi i benefici spettanti ai reduci (D.L.C.p.S. 3 Settembre 1947 n.885 e D.Lgs. 26 Febbraio 1948 n. 104), intervenne la L. 4 Marzo 1952 n. 137 che impose alle imprese appaltatrici di opere pubbliche l'obbligo di riservare ai profughi una percentuale dei posti di lavoro (art. 27).
Poi, il legislatore intervenne con la legge 27 Febbraio 1958 n. 130 che obbligò ai privati datori di lavoro di riservare ai profughi una determinata aliquota delle nuove assunzioni (art. 2).
L'elenco dei profughi veniva stilato dalle rappresentanze dell'Opera ma il collocamento era di esclusiva pertinenza degli ordinari organi di collocamento.
Una volta assunti, i soggetti in questione avevano diritto ad essere mantenuti in servizio per almeno due anni, a decorrere dalla data di assunzione, salvo i casi di licenziamento per giusta causa o per cessazione dell'attività dell'azienda.
Invalidi per servizio
La legge 15 Luglio 1950 n. 539, estendeva ad i mutilati ed invalidi per servizio ed ai congiunti dei caduti per servizio, i benefici spettanti ai mutilati ed invalidi di guerra ed ai congiunti dei caduti in guerra, la normativa, però, era risultata inapplicabile, non essendo stato chiarito quali benefici fossero da applicarsi e con quali modalità.
Seguì la legge 24 Febbraio 1953 n. 142, sull'assunzione obbligatoria al lavoro degli invalidi per servizio e degli orfani dei caduti per servizio. Con essa il legislatore richiamava nella sostanza la normativa introdotta dalla L. n. 375/1950 e dal relativo regolamento d'esecuzione, normativa che, oltretutto, conservava un'applicabilità residuale per quanto risultava non disciplinato dalla legge in questione. La stessa legge n.367 del 1963 sugli invalidi di guerra, apportante modifiche alla L. n. 375/1950, avrebbe poi espressamente ribadito all'art.20 che le proprie norme e quelle del regolamento n. 1176/1952 sarebbero state valide, in quanto applicabili, per quanto non disciplinato direttamente dalla L. n. 142/1953.
Quanto alle percentuali di posti riservati (art. 9 2° comma) i soggetti obbligati dovevano occupare un invalido per servizio per ogni tre posti riservati agli invalidi civili di guerra. Le assunzioni obbligatorie di invalidi per servizio sarebbero, quindi, state computate a copertura delle percentuali stabilite dalla legge n. 375/1950 a favore degli invalidi civili di guerra, ma non potevano in alcun caso essere effettuate in eccedenza alle dette percentuali.
Per quanto concerneva gli orfani dei caduti per causa di servizio, si stabiliva l'applicabilità delle norme sul collocamento obbligatorio degli orfani di guerra (art. 9 4° comma).
I compiti di tutela e di mediazione nelle assunzioni erano riservati agli ordinari uffici di collocamento. Questi formavano gli elenchi di aspiranti al collocamento coattivo ed i datori di lavoro soggetti all'obbligo di assunzione dovevano, qualora non vi avessero provveduto direttamente, rivolgere loro le richieste di lavoratori considerati dalla legge.
Al datore di lavoro era quindi concessa la facoltà di ricorrere all'assunzione diretta (artt. 11 e 15): poiché, era ragionevole supporre che la legge fosse rimasta indenne dalle modifiche (di segno opposto in materia di assunzioni dirette) apportate dalla L. n. 367/1963 (il cui intervento nell'ambito delle assunzioni obbligatorie di invalidi per servizio ed orfani per causa di servizio era meramente residuale), il legislatore, senza volerlo, poneva in essere, in ultima analisi, una sostanziale divergenza fra il sistema del collocamento obbligatorio creato a favore degli invalidi di guerra e quello istituito a beneficio degli invalidi per servizio; divergenza contraria alla ratio della stessa L. n. 142 e, comunque, difficilmente giustificabile.
Ex tubercolotici
Col decreto legislativo 15 Aprile 1948 n. 538 si disciplinò l'avviamento al lavoro e la speciale tutela a beneficio dei lavoratori dimessi da luoghi di cura per guarigione clinica da affezione tubercolare. Il sistema che con il decreto venne istituito aveva, in primo luogo, il pregio di porre l'attenzione sull'idoneità specifica del minorato di cui si effettuava il collocamento obbligatorio ed, in secondo luogo, il merito di prevedere l'avviamento per vie privilegiate solo come ultimo espediente. Il decreto, infatti, si curava, prima di tutto di rendere possibile la riqualificazione del tubercolotico e di favorirne l'occupazione secondo le procedure ordinarie; quest'ultimo risultato veniva perseguito attraverso l'abrogazione delle disposizioni limitanti o vietanti l'assunzione o la riassunzione dell'ex tubercolotico.
L'obbligo di assunzione era esclusivamente a carico delle case di cura sanatoriali, dipendenti da enti pubblici o da privati (art. 3). Secondo il parere del Consiglio di Stato soggetti obbligati erano da ritenersi le case di cura esclusivamente a carattere sanatoriale e non anche le case di cura che avessero, tra gli altri, anche un reparto sanatoriale. L'opinione del Consiglio di Stato poggiava sull'interpretazione letterale del testo del decreto ed evitava quelle difficoltà nel computo del personale che sarebbero risultate qualora si fosse ritenuta sufficiente la presenza di un reparto dedicato al risanamento dei tubercolotici. In questo caso infatti le soluzioni sarebbero state due: o quella di calcolare l'intero personale della casa di cura, con la conseguenza irrazionale di computare anche gli addetti ai reparti non sanatoriali, oppure quella di considerare i soli addetti ai reparti sanatoriali ed in questo caso facendo riferimento a mere situazioni di fatto, difficilmente accertabili e fonti di incertezza .
Non era ben chiaro in cosa consistesse l'obbligo prescritto alle case di cura.
Secondo una certa dottrina , l'obbligo di assunzione concerneva la copertura dei posti vacanti e non implicava assunzioni in soprannumero. Ciò sarebbe risultato dal 3° comma dell'art. 3, secondo il quale in caso di insufficienza di posti vacanti le assunzioni sarebbero state fatte in seguito a vacanze.
Di diverso avviso era chi , suggerendo di non farsi vincolare da una dizione della legge infelice e fuorviante, riteneva che l'obbligo consistesse nel riservare agli extubercolotici, alla data di entrata in vigore del decreto, la percentuale prescritta. Per giungere a questo risultato interpretativo e contestare l'evidente significato della lettera del decreto questa dottrina era comunque costretta a ricorrere ad argomentazioni, a dir poco, ardite.
Organi incaricati del collocamento degli ex tubercolotici erano delle speciali Commissioni istituite presso gli Uffici del collocamento ordinario.
In ordine all'adempimento dell'obbligo da parte delle case di cura sanatoriali, nell'ultimo comma dell'art. 3 si stabiliva che queste avessero, si, facoltà di scelta dell'ex tubercolotico da occupare, ma solo "fra gli iscritti negli elenchi" predisposti dalle Commissioni.
Per parte dei commentatori , le cose stavano diversamente: il datore di lavoro era obbligato a ricorrere all'elenco solo al momento della prima applicazione della legge, mentre era tenuto in seguito a rispettare la percentuale (entro 30 giorni dal verificarsi di vacanze) senza necessariamente dover ricorrere agli elenchi della Commissione.
La casa di cura era tenuta ad adibire i lavoratori extubercolotici a mansioni cui fossero fisicamente adatti (art. 3 1° comma). A garanzia di questo, alla Commissione era attribuito un compito di vigilanza, nonché, in caso di riscontro negativo, il potere di prescrivere il cambiamento delle mansioni (art. 8 2° comma lett. c). Il decreto non specificava però quale fosse l'efficacia della prescrizione e quali le conseguenze in caso di violazione.
Orfani e vedove
La speciale tutela nell'accesso al mondo del lavoro che il legislatore accordò alla categoria degli orfani di guerra ricalcava, in larga misura, quella concessa alla categoria dei mutilati ed invalidi di guerra.
Quel dovere di solidarietà e quel riconoscimento del debito da parte della nazione, che aveva a suo tempo giustificato l'intervento del legislatore a favore di coloro che per la patria si erano sacrificati, veniva ora riconosciuto ed esteso ai loro familiari. Le leggi sulla categoria in esame si basavano quindi su motivi che esulavano da quelli strettamente di assistenza cui all'art. 38 della Costituzione.
La L. 26 luglio 1929 n. 1397 istituiva l'Opera nazionale per gli orfani di guerra. Ad essa fece seguito il regolamento per l'esecuzione approvato con il Regio decreto del 13 novembre 1930 n. 1642.
La condizione di orfano di guerra risultava dall'iscrizione nei registri tenuti presso i Comitati provinciali dell'Opera. Presso i Comitati provinciali erano altresì formati dei ruoli speciali finalizzati al collocamento obbligatorio (art. 63).
Per quanto riguardava l'obbligo del collocamento a carico dei privati imprenditori, questo risultava concepito come sussidiario rispetto a quello istituito a favore degli invalidi di guerra: allorquando si fossero trovati nell'impossibilità di assumere invalidi di guerra nel numero prescritto dalla legge del 1921 n. 1312, i privati datori di lavoro erano tenuti a compensare la differenza mediante assunzione di orfani di guerra (art. 58). Questa impossibilità di assunzione era automaticamente riconosciuta nel caso che il Ministro per il lavoro avesse concesso l'esonero previsto dall'art. 12 della legge del'21 n. 1312.
Naturalmente era anche plausibile che le particolari condizioni dell'azienda, tali da giustificare l'estinzione dell'obbligo di collocamento di personale invalido di guerra, fossero idonee a giustificare un'estensione dell'esonero anche nei confronti dell'obbligo di assunzione di orfani di guerra (art. 59) (la concessione dell'esonero era, però, limitata ai casi di eccezionale comprovata necessità).
L'imprenditore aveva la facoltà di occupare orfani di guerra in numero maggiore di quello prescritto (art. 60). In questo caso, se da un lato, gli assunti in esubero erano esclusi dal computo del personale valido ai fini del collocamento di invalidi di guerra, dall'altro, all'imprenditore era fatto divieto di licenziare gli invalidi di guerra già alle proprie dipendenze che fossero risultati eccedenti. Per meglio dire (di divieto vero e proprio non si può parlare tenuto conto della possibilità del licenziamento ad nutum), l'imprenditore non poteva motivare il licenziamento dell'invalido sul solo presupposto del mutamento della percentuale. Questa, infatti, rimaneva inalterata nei confronti (e a garanzia) degli invalidi già occupati obbligando il datore a rimpiazzare comunque l'invalido licenziato con un altro invalido.
La legge del 1926 n. 1397 fu in seguito abrogata e sostituita dalla legge 13 Marzo 1958 n. 365 (mentre per effetto della legge 23 Febbraio 1960 n. 92 la qualifica di orfano di guerra, per ogni effetto di legge, venne riconosciuta anche a coloro che avevano perduto la madre per fatto di guerra).
La legge del 1958 n. 365 era, comunque, in materia di collocamento obbligatorio, del tutto identica a quella del 1926 n. 1397.
La successiva legge 15 Novembre 1965 n. 1288 introdusse nuove disposizioni sull'assunzione obbligatoria presso le aziende private e la pubblica Amministrazione delle vedove e degli orfani di guerra e delle vedove e degli orfani dei caduti per causa di servizio.
Si obbligarono solo le imprese di considerevole consistenza (100 dipendenti) e si impose loro di riservare agli orfani e vedove in questione un'aliquota (1 %) dei posti esistenti.
I privati datori di lavoro potevano direttamente assumere i soggetti compresi negli speciali albi, aventi una qualifica impiegatizia o una particolare specializzazione o qualificazione, oppure in possesso degli attestati di conseguita idoneità rilasciati dalle istituzioni scolastiche o dai corsi di formazione professionale promossi o autorizzati dal Ministero del lavoro (art. 5).
Per il tramite degli organi del collocamento ordinario e delle rappresentanze dell'Opera, invece, e con richiesta numerica, dovevano essere effettuate le assunzioni dei soggetti protetti non in possesso dei citati attestati e qualifiche.
Ciechi
La legge 14 luglio 1957 n. 594, in armonia con le finalità di assistenza e di avviamento professionale dei minorati cui all'art. 38 della Costituzione, obbligò le pubbliche Amministrazioni, gli Enti pubblici, le aziende statali ed i privati datori di lavoro ad assumere tanti minorati della vista, abilitati alle funzioni di centralinista, quanti erano gli uffici, sedi o stabilimenti dotati di centralino telefonico di smistamento a piu' di un posto di lavoro (art. 1).
Esclusi dall'applicazione della legge erano, sia per i privati che per le pp.aa., le centrali ed i centralini destinati a pubblico servizio. Cosa dovesse intendersi con quest'ultima espressione non era molto chiaro, anche perchè intepretandola letteralmente questa sembrerebbe, paradossalmente, escludere dall'obbligo le stesse pp.aa.
Secondo alcuni la legge voleva con questa espressione riferirsi al servizio telefonico dell'Azienda di Stato e delle aziende concessionarie delle reti telefoniche, ad avviso di altri, invece, stando anche alle spiegazioni espresse durante i lavori preparatori, la legge voleva indicare i servizi a disposizione del pubblico, nei quali si svolgessero operazioni non solo particolarmente complesse ma anche delicate (quali per es. quelle svolte dalle amministrazioni militari) .
La legge non dava alcuna definizione precisa per identificare i soggetti beneficiari delle sue disposizioni e parlava indifferentemente di ciechi e di minorati della vista. Parte della dottrina giustificava tale lacuna ritenendo che l'espressione minorati della vista indicasse coloro che erano tutelati dall'Unione Nazionale Ciechi e godevano dell'assegno previsto dalla legge 9 Agosto 1954 n. 632, coloro cioè che avevano una minorazione della vista del 90% ed erano equiparati nell'assistenza al cieco integrale .
L'avviamento avveniva ad opera del Ministero del lavoro (il quale curava la formazione degli elenchi), per mezzo degli Uffici regionali e provinciali del lavoro (art. 5).
La legge prevedeva che per i privati datori di lavoro l'obbligo sarebbe scattato solo al momento delle nuove assunzioni posteriori all'entrata in vigore della legge. Si trattava, quindi, di un vero e proprio obbligo a contrarre, che sorgeva (in presenza della condizione oggettiva richiesta dalla legge all'art. 1) solo al momento delle nuove assunzioni. Questo era l'effetto di un emendamento, inserito in sede di Commissione parlamentare, motivato dal timore che l'assunzione dei ciechi potesse provocare il licenziamento del personale valido già occupato, ed in particolare di quello femminile.
In realtà procrastinando la nascita dell'obbligo al momento delle nuove assunzioni si rischiava di rendere estremamente lenta l'attuazione del collocamento auspicato dalla legge e di rendere difficile l'accertamento delle violazioni (non v'era, infatti, obbligo di informare il Ministero del lavoro riguardo le nuove assunzioni). Secondo parte della dottrina, lo slittamento del sorgere dell'obbligo al momento delle nuove assunzioni riguardava anche le pubbliche Amministrazioni .
Dalla lettera della legge doveva desumersi che il datore di lavoro non potesse avvalersi della richiesta nominativa, dovendo, invece, concludere il contratto con la persona inviata dal Ministero. Ciò risultava confermato dalla sanzione prevista all'art. 7 a carico dei datori di lavoro che si fossero rifiutati di assumere i centralinisti .
Ora, siccome la legge in esame, a differenza di altre, obbligava il datore di lavoro ad assumere il lavoratore inviatogli e non a rispettare semplicemente la percentuale (in analogia con quanto previsto dalla legge sul collocamento ordinario) si doveva, secondo l'avviso di una certa dottrina, dedurre che da essa scaturisse un vero e proprio diritto soggettivo in favore del cieco avviato, che gli dava titolo, di fronte al rifiuto del datore di lavoro, al risarcimento del danno ed alla costituzione di parte civile .
Connessa a tale questione era quella riguardante la natura e la forza dell'atto d'avviamento cui all'art. 5 della legge: vi era chi sosteneva che questo fosse idoneo a costituire per atto amministrativo il contratto fra i soggetti interessati (visto che si innestava ad un vero e proprio obbligo di assumere); altri affermavano che, tenuto anche conto dell'esistenza di un'art. 7 che puniva i datori di lavoro inadempienti all'obbligo di assunzione, l'atto di avviamento fosse, semplicemente, costitutivo di un rapporto preliminare legale, il quale faceva salva la necessità, ai fini della costituzione del rapporto di lavoro, di addivenire alla conclusione del contratto (anche con l'ausilio di una sentenza costitutiva ex art. 2932 c.c.) .
La legge del 1957 n. 594 subì delle modifiche per effetto della legge 28 Luglio 1960 n. 778 : queste riguardarono la definizione dei soggetti obbligati abrogandosi l'esclusione dall'obbligo dei centralini con un solo posto di lavoro, che la precedente legge invece prevedeva al fine di evitare l'isolamento del cieco.
I privati datori di lavoro erano obbligati ad occupare i centralinisti ciechi, nel caso avessero dovuto procedere a nuove assunzioni di centralinisti, qualora negli uffici, sedi o stabilimenti della propria azienda, disponessero di un centralino di smistamento a piu' di un posto di lavoro, od un centralino ad un solo posto di lavoro con almeno cinque linee urbane. Quest'ultima innovazione fu criticata in dottrina: si disse che prevedibilmente l'applicazione sarebbe stata problematica, perché eccessivamente gravosa per i datori di lavoro e, al tempo stesso, facilmente eludibile (sarebbe stato sufficiente ridurre le linee da 5 a 4) .
Con la legge 5 Marzo 1965 n. 155 vennero apportate modifiche alle norme sull'assunzione obbligatoria di centralinisti ciechi così come risultanti dall'innesto della L. n. 778 del 1960 sulla L. n. 594 del 1957.
Ferma restando la definizione di centralino telefonico fissata all'art. 1 della n. 594 del 1957, si dettava chiaramente quali fossero i centralini esclusi dall'obbligo di assunzione, risolvendo così i le questioni interpretative sorte in precedenza.
Siccome il 4° comma dell'art. 1 della legge n. 778 del 1960 poneva per i privati datori di lavoro l'obbligo del collocamento nel solo caso di nuove assunzioni di centralinisti, si chiariva ora come per nuove assunzioni di centralinisti dovessero considerarsi anche i trasferimenti dei lavoratori, precedentemente in servizio con diversa qualifica o mansione, che, per un motivo qualsiasi, venissero adibiti all'impianto telefonico avente funzioni di smistamento e di collegamento di cui i datori di lavoro erano dotati (art. 3). Il trasferimento, quindi, veniva considerato come tentativo di dissimulazione, in fraudem legis, di un'occasione di lavoro; la presenza, effettiva, di quest'ultima imponeva di far luogo ad un'assunzione e rendeva, così, attuale l'obbligo del datore di lavoro privato .
La legge del 1957 n. 594 indicava i soggetti beneficiari con l'espressione minorati della vista (dando luogo a non indifferenti dubbi interpretativi), la legge del 1960 n. 778 piu' chiaramente parlava dei soli privi della vista. La legge n. 155/1965 formulò, in proposito, una chiara definizione onde fugare ogni residuo equivoco (art. 2).
Con legge 21 Luglio 1961 n. 686 venne istituito un procedimento di collocamento obbligatorio in favore dei massaggiatori e massofisioterapisti ciechi.
L'obbligo era a carico (art. 1) degli ospedali e istituti di cura di certe dimensioni, dipendenti dalla p.a. o da privati e consisteva nell'introdurre nel personale o negli organici almeno un posto di massaggiatore o massofisioterapista, ove non fosse esistito, ed a conferire tale posto ad un massaggiatore o massofisioterapista cieco diplomato. Qualora le case di cura e gli stabilimenti termali avessero già avuto alle proprie dipendenze uno o piu' massaggiatori o massofisioterapisti diplomati, l'obbligo sarebbe sorto, nel caso di pubblico impiego, al momento della nuova assunzione disposta dopo l'entrata in vigore della legge, e nel caso di rapporto di lavoro privato, nel momento in cui, sempre successivamente all'entrata in vigore della legge, il posto così occupato fosse rimasto scoperto (art. 2).
Gli interessati alla tutela del collocamento coattivo dovevano avere conseguito l'abilitazione presso scuole riconosciute (art. 8) ed ottenere l'iscrizione in un Albo professionale nazionale, tenuto presso il Ministero del lavoro.
Sordomuti
La legislazione sociale a favore dei sordomuti così come quella, già vista, a tutela dei ciechi rientrava nelle ipotesi di tutela dei minorati previste dall'art. 38 della Costituzione.
La legge del 13 Marzo 1958 n. 308, tuttora in vigore e concernente disposizioni per l'assunzione obbligatoria dei sordomuti, è però viziata da una redazione contraddittoria e lacunosa, in poche parole scadente.
Probabilmente, fu la coincidenza fra il periodo della sua discussione in Parlamento e la fine della Legislatura a causare una inopportuna fretta per ottenerne l'approvazione, nonché, all'ultimo momento, l'infelice decisione di inserire un emendamento, del tutto improvvisato, proprio col quale si estendeva l'obbligo di collocamento ai privati datori di lavoro (in un contesto normativo, si badi, concepito in relazione alle sole pubbliche Amministrazioni).
Parte della dottrina e della giurisprudenza di merito giunse perfino a considerare la legge inapplicabile ai privati datori di lavoro. Perché sebbene la legge sembrasse rivolgersi anche ad essi, questa, in realtà, finiva per configurare delle fattispecie legali di impossibile realizzazione nell'ambito dei privati .
La normativa sui sordomuti è, insieme a quella sui privi della vista, l'unica a richiedere ai fini del collocamento coattivo il possesso da parte dell'interessato di una specifica abilitazione professionale: i sordomuti che possono aspirare al collocamento obbligatorio sono quelli che hanno conseguito un diploma professionale specifico o quelli che, secondo il giudizio del medico fiscale delle Amministrazioni interessate siano risultati idonei alle specifiche mansioni cui devono essere assegnati (art.6).
Invalidi civili
Con la legge n.1539 del 1962, concernente provvedimenti in favore dei mutilati ed invalidi civili, il legislatore volle apprestare un sistema di collocamento obbligatorio valevole per tutti quei casi di invalidità, fosse essa congenita o comunque acquisita, non coperti dalle particolari leggi che abbiamo finora esaminato. Con essa quindi si voleva dare la piu' completa attuazione agli artt. 4 e 38 della Costituzione.
Certi autori notarono come le intenzioni a base del provvedimento potessero essere frustate dall'eccessivamente ridotta percentuale di invalidità richiesta ai fini del godimento del diritto all'assunzione. Si rilevava come i benefici della legge in questione fossero invocabili anche da parte di quegli invalidi che, appartenenti a categorie considerate dalle specifiche leggi sul collocamento obbligatorio, fossero affetti da un'invalidità eccessivamente lieve ai fini di quest'ultime, ma sufficiente, invece, ai sensi della legge in esame. Sarebbe, così, successo che molti dei posti riservati dalla legge sarebbero stati, per esempio, coperti dai minimi invalidi del lavoro con capacità lavorativa ridotta di almeno di un terzo. Si rischiava, secondo questi autori, di vanificare l'estensione della tutela ai minorati non appartenenti a nessuna particolare categoria; estensione che, eppure, costituiva il fine precipuo della legge.
Probabile era altresì che molti dei posti riservati andassero a quella parte del personale, già impiegato, la cui diminuita capacità di lavoro di almeno un terzo, era la semplice conseguenza dell'età ormai avanzata. Questo se si accettava la posizione di autori i quali ritenevano che, pur nel silenzio della legge, andasse riconosciuto il principio, comune a tutte le disposizioni sulle assunzioni obbligatorie, della computabilità, ai fini del raggiungimento della percentuale prescritta, dei lavoratori già assunti ed aventi i requisiti richiesti per il trattamento privilegiato.
Altri autori ancora, notarono come, nei casi in cui era possibile la richiesta diretta del datore di lavoro, gli iscritti nei ruoli riportanti lievi invalidità sarebbero stati di gran lunga favoriti rispetto a quegli altri in condizioni piu' gravi e purtroppo maggiormente bisognosi dell'inserimento coattivo.
Nel caso di assunzione di nuovo personale, le imprese di certe dimensioni (piu' di 50 lavoratori in servizio esclusi gli apprendisti), erano tenute ad assumere un mutilato o invalido civile per ogni 10 lavoratori da assumere, fino a raggiungere la proporzione di un mutilato o invalido civile per ogni 50 dipendenti in servizio (o frazione di 50 superiore a 25).
Il ruolo relativo agli appartenenti a questa categoria (art. 6) era formato presso gli U.P.L.M.O., con la collaborazione di rappresentanti delle Associazioni nazionali mutilati ed invalidi civili.
La legge in esame istituì una procedura per il collocamento dei minorati che si inquadrava nello schema della L n. 264/1949, e che ricalcava quella stessa prevista dalla legge n. 1288 del 1965 sugli orfani e vedove di guerra ed orfani e vedove dei caduti per causa di servizio.
Tra le peculiarità della legge vi era quella della concessione ai datori di lavoro della facoltà di conteggiare, ai fini del raggiungimento della proporzione imposta dalla legge, quei mutilati ed invalidi civili che, durante il rapporto di lavoro coattivamente costituito, avessero superato il 55° anno di età o avessero conseguito un aumento della capacità lavorativa tale da renderla superiore al limite massimo per l'assunzione al lavoro.
Ai fini dell'escrizione negli elenchi, l'invalido doveva presentare tutti i documenti atti a dimostrare le attitudini professionali, sia generiche che specifiche, risultanti dai precedenti lavorativi o dagli attestati di conseguita idoneità rilasciati dalle istituzioni scolastiche o dai corsi direttamente promossi o autorizzati dal Ministero del lavoro. Tale cura all'idoneità professionale dell'invalido non era una rarità nelle leggi passate sul collocamento obbligatorio, ma, a parte i casi già esaminati dei privi della vista e dei sordomuti, essa rilevava solo per l'iscrizione negli elenchi e non influiva in maniera determinante nelle fasi successive del collocamento obbligatorio. Tale scelta del legislatore sarebbe stata confermata dalla legge generale del 2 Aprile 1968 n. 482.
Le norme sulle assunzioni obbligatorie rientrano nel campo della legislazione c.d. sociale (o di sicurezza sociale) e cioè in quel complesso di interventi pubblici predisposti per rimuovere le situazioni di bisogno dei lavoratori.
All'interno di questo genus le norme riguardanti il collocamento obbligatorio si distinguono per la particolarità dei soggetti tutelati: questi sono lavoratori o aspiranti lavoratori appartenenti a categorie ben determinate e delimitate. Alla ristretta cerchia dei soggetti beneficiari corrisponde un forte intervento di assistenza consistente nell'obbligo a carico di datori di lavoro privati e pubblici di riservare una determinata percentuale di posti agli appartenenti a queste categorie.
Prima della legge 2 Aprile 1968 n. 482, che ha riordinato la materia, la normativa sul collocamento obbligatorio si è prodotta, non sulla base di un organico disegno pianificatore del legislatore, ma sulla spinta di istanze, urgenze e necessità contingenti; da qui una congerie di interventi sporadici, frammentari e scollegati fra di loro, da cui con difficoltà si riesce a far emergere dei principi e delle soluzioni comuni.
L'enucleazione delle categorie si conformava, di volta in volta, a due diversi intenti: a quello di offrire un'occupazione a soggetti di ridotta capacità lavorativa, e quindi sfavoriti all'interno dei meccanismi formalmente egualitari del mercato del lavoro, ed a quello di collocare, at-traverso vie privilegiate, soggetti (di piena capacità lavorativa) versanti in uno stato di particolare ed impellente bisogno. Per alcuni, quindi, (invalidi di guerra, del lavoro, per servizio ecc.) il collocamento obbligatorio costituiva la rimozione di un ostacolo, per altri (orfani di guerra, orfani dei caduti per servizio, reduci, profughi ecc.) un (giusto) privilegio .
Non uniformi erano anche le motivazioni su cui poggiava, di volta in volta, la rimozione dell'ostacolo o la concessione del privilegio: esse risiedevano generalmente in ragioni di solidarietà sociale ed assistenziale (come per i ciechi, sordomuti, ex-tubercolotici, invalidi civili ecc.), ma alcune volte si aggiungeva a loro, o si sostituiva del tutto, il debito di riconoscenza verso quei soggetti che si erano meritoriamente esposti in prima persona nella difesa di valori ed interessi socialmente riconosciuti (così per es. per gli invalidi di guerra, i reduci e , di riflesso, gli orfani e le vedove di guerra).
Genesi della normativa
La maggior parte delle normative che esamineremo si modellavano, quale più quale meno, al sistema scelto dal legislatore con la prima legge in materia, la n. 1312 del 1921 a favore degli invalidi e mutilati di guerra.
Il modello di "assistenza" della L. n. 1312/1921 non aveva precedenti ma la sua notevole carica innovativa era proporzionata alla drammaticità della situazione sociale creatasi in Italia, come in altri Paesi, all'indomani della Prima guerra mondiale.
Fu nel 1920, nella IV Conferenza Interalleata, tenutasi a Bruxelles, che venne affrontato, su iniziativa della stessa delegazione italiana, il problema del collocamento dei mutilati ed invalidi della guerra. Si affermò, in quella sede, il principio dell'occupazione obbligatoria di tali soggetti da parte delle pubbliche amministrazioni e dei privati datori di lavoro. Riguardo le modalità di attuazione da seguire in concreto, si decise di lasciare libera scelta ai singoli paesi, dovendo ciascuno di essi far ri-ferimento a differenti condizioni del mercato del lavoro ed a peculiari situazioni economico-sociali.
Per esempio paesi come U.S.A. ed Inghilterra che, in quegli anni, conoscevano una situazione d'equilibrio fra domanda ed offerta di lavoro (se non di eccesso dell'offerta di lavoro), poterono semplicemente prevedere forme di riabilitazione generica o specifica dei minorati e così assicurare loro una sostanziale pari opportunità nel concorso con soggetti, aventi invece piena capacità lavorativa.
In altri paesi al contrario, la situazione di forte disoccupazione, rendeva tali tipi di interventi non idonei ad assicurare, anche per i soggetti deboli, la partecipazione ai processi di produzione richiedendo, invece, una soluzione di carattere autoritativo (come il collocamento obbligatorio): l'introduzione cioè nei rapporti di lavoro, di una diseguaglianza formale, di un vero e proprio privilegio.
Questo sistema coattivo fu varato, fra l'altro, oltre che in Italia, anche in Francia ed in Germania, dove, per di piu', si optò per una coazione "forte" che dava allo Stato stesso la possibilità di inserire l'invalido nel personale dell'azienda del datore di lavoro inadempiente e di concludere d'imperio il contratto di lavoro. Adottando tale soluzione, in Germania si relativizzava quel principio di contrattualità, che il legislatore italiano, al contrario, continuò a considerare intangibile .
Come risulta dalla relazione alla Camera dei deputati nella seduta del 20 Giugno 1921 dell'On. Labriola, ministro proponente della legge n. 1321 , essa veniva varata in un periodo di grave disoccupazione. L'invalido, in balia delle leggi del mercato, non poteva ambire realisticamente ad un occupazione se essa stessa risultava poi lontana dalle possibilità di coloro che erano pur dotati di piena capacità lavorativa. All'esigenza di favorire l'accesso al lavoro di soggetti scarsamente richiesti dai datori di lavoro, si aggiungevano poi motivi peculiari al momento storico nel quale la legge veniva concepita. Era infatti decisivo il debito dello stato verso questi invalidi, così che si avvertiva l'esigenza di far seguire, al sentimento di gratitudine per il sacrificio offerto ed alla solidarietà per le difficoltà dell'infermità, fatti tangibili ed assunzione di oneri. D'altronde, si affermava nella relazione, era nell'interesse della stessa economia nazionale che venissero potenziate e valorizzate quelle forze lavorative che altrimenti sarebbero rimaste inutilizzate. Sempre l' On. Labriola sottolineava come gli interessi di tali soggetti non potessero essere piu' tutelati mediante la previsione delle sole attività di rieducazione, che per forza di cose sareb-bero rimaste di utilità meramente teorica e fosse, quindi, richiesta l'effettiva, autoritativa, introduzione degli invalidi di guerra nel meccanismo della produzione (introduzione coattiva che, tutto sommato, costituiva essa stessa la migliore scuola ed il miglior esercizio per la rieducazione).
Si realizzò così in Italia, in quegli anni, un sistema di assunzioni obbligatorie limitato ai militi invalidatisi nel corso degli eventi bellici, ma, una volta introdotto, il principio dell'assistenza per le vie del collocamento coattivo era destinato a trovare applicazione nei confronti di sempre piu' larghe schiere di soggetti.
Tale tendenza a ricoprire piu' situazioni possibili è del tutto coerente con l'ampiezza del raggio d'azione della legislazione sociale e del concetto giuridico di funzione di sicurezza sociale, così come riconosciuta al 1° comma dell'art. 38 della Costituzione, secondo il quale ogni cittadino inabile al lavoro e sprovvisto dei mezzi necessari per vivere ha diritto al mantenimento ed all'assistenza sociale .
L'ampliamento della sfera dei beneficiari del collocamento obbligatorio iniziò subito dopo la seconda guerra mondiale, allorché vennero emanati provvedimenti in favore degli invalidi del lavoro, dei reduci, profughi ecc. .
I principi di solidarietà proclamati dalla Costituzione e la crescita economica incentivarono la volontà diffusa nella coscienza sociale di rendere partecipi della vita produttiva del Paese i soggetti piu' sfortunati; anche le associazioni di categoria ottenevano un maggior ascolto nei palazzi della politica.
La legislazione sulle assunzioni obbligatorie conobbe quindi una progressiva estensione della sfera dei suoi beneficiari. Tale tendenza era sicuramente apprezzabile dati i motivi umanitari che la giustificavano se non fosse che spesso ad essa si accompagnò un'insufficiente attenzione da parte del legislatore alle differenze fra le varie situazioni e condizioni dei soggetti protetti ed una semplicistica sopravvalutazione della reale capacità da parte delle aziende di adempiere agli obblighi .
Gli interventi della Corte Costituzionale
Anche sulla base di quest'ultimo rilievo, successivamente all'entrata in vigore della Costituzione, vennero piu' volte avanzati dei dubbi sulla legittimità delle leggi sulle assunzioni obbligatorie. Sospetti che soprattutto vennero alimentati dalla decisione della Corte Costituzionale circa l'illegittimità dell'imponibile di mano d'opera in agricoltura . Dovette allora la Consulta intervenire in maniera chiara sulla materia , e ciò fece, avallando e legittimando i sistemi di collocamento obbligatorio già esistenti, nonché ponendo le premesse per un ulteriore attività del legislatore in tale direzione.
Le decisioni della Corte si appoggiavano, innanzitutto, sul 3° comma dell'art. 38 della Costituzione, il quale attribuiva agli inabili ed ai minorati il diritto all'educazione ed all'avviamento professionale, nonché sul 1° comma del medesimo articolo, che espressamente dichiarava il diritto al mantenimento ed all'assistenza del cittadino inabile al lavoro e sprovvisto dei mezzi necessari per vivere. Tali principi si coordinavano e si chiarivano attraverso il richiamo agli artt. 4 e 35 Cost.: essi individuavano come compito della Repubblica (e quindi principio cardine e guida dell'attività del legislatore) quello di intervenire attivamente, in primo luogo, per il riconoscimento del diritto al lavoro di tutti i cittadini (attraverso la rimozione degli ostacoli della realtà fattuale e la promozione delle condizioni necessarie ex art. 3 2° comma Cost.), in secondo luogo per la tutela del lavoro, perseguita attraverso la cura della formazione e dell'elevazione professionale dei lavoratori. Il risultato di tale combinazione di norme si specchiava, infine, nella possibilità, prospettata al 3° comma dell'art. 41 Cost., di indirizzare a fini sociali l'iniziativa economica privata. Eventualità questa comunque subordinata, innanzitutto, al rispetto del principio della libertà dell'attività economica privata (cui al 1° comma dell'art. 41 Cost.), nei confronti della quale, secondo l'opinione della Corte Costituzionale e della dottrina, era permessa l'imposizione di soli limiti negativi (esterni) e non positivi (interni). Ebbene, la legittimità costituzionale delle norme sul collocamento obbligatorio conseguiva proprio al fatto che da esse discendevano dei meri limiti negativi (esterni) alla libertà imprenditoriale. Tali norme, infatti, ponevano in essere, a carico dei datori di lavoro, non degli obblighi a contrarre, quanto dei limiti di scelta.
Ma non bastava, affinché la deroga al principio cui all'art. 41 Cost. fosse legittima, era anche necessario che, come sancito dal penultimo comma dell'art. 38 della Costituzione, il peso ed i costi effettivi della funzione assistenziale assicurata per il tramite del collocamento obbligatorio, venissero sopportati dallo Stato e non dal datore di lavoro. La Corte ritenne che anche tale condizione fosse soddisfatta, poiché il datore di lavoro otteneva pur sempre, in cambio, dal soggetto appartenente alla categoria protetta, l'utilità di una prestazione di opere. Erano, peraltro, proprio queste considerazioni circa le limitazioni ed i costi a carico degli imprenditori, ad avere indotto la Corte ad assumere una posizione specularmente opposta in occasione del vaglio delle disposizioni sull'imponibile di mano d'opera.
Detto questo, ricordiamo, comunque, i dubbi avanzati da parte della dottrina per il fatto che nessuna delle leggi in materia (con l'eccezione di quelle a favore dei centralinisti ciechi e degli invalidi civili) aveva previsto, come prodromo del collocamento, un'opera di rieducazione a carico dello Stato, così come in realtà prescritto all'ultimo comma dell'art. 38 della Costituzione. Questa scarsa attenzione alla preparazione e rieducazione professionale dell'invalido da inserire, rischiava, secondo questi Autori, di far gravare tutto il peso del collocamento sull'interesse al profitto dell'imprenditore, (espressione con la quale tale dottrina esprimeva in altri termini la libertà garantita in via assoluta al 1° comma dell'art. 41 Cost) .
Invalidi di guerra
La legge 21 Agosto 1921 n. 1312, sulle assunzioni obbligatorie degli invalidi di guerra presso le pp.aa. ed i privati imprenditori, costituì, come sopra accennato, il modello di riferimento per i successivi provvedimenti in materia di collocamento obbligatorio.
Fu introdotto dalla L. n. 1312/1921, per poi essere mutuato dalle successive leggi, il principio fondamentale dell'esclusione dai benefici del collocamento obbligatorio, da un lato di quegli invalidi che avessero perduta ogni capacità lavorativa o che per la natura ed il grado dell'invalidità avrebbero potuto recare pregiudizio alla salute e sicurezza dei compagni di lavoro ("massimi invalidi") (la legge n. 375/1950 avrebbe aggiunto il rischio per l'integrità degli impianti), dall'altro di quegli invalidi che avessero riportato determinate lesioni od infermità di tale tenuità da non giustificare il trattamento privilegiato ("minimi invalidi")(art. 2).
Comunque il datore di lavoro che spontaneamente avesse occupato invalidi non aventi diritto ai benefici di legge, per aver perduta ogni capacità lavorativa, aveva facoltà di conteggiarli nella percentuale degli invalidi che era tenuto ad occupare nell'azienda (art. 3 regolamento per l'applicazione R.D. 29 Gennaio 1922 n. 92).
La legge in esame, come quelle successive, poneva come destinatario dell'obbligo e punto di riferimento per il calcolo del limite dimensionale il datore di lavoro.
Alcuni autori notarono come, onde evitare conseguenze illogiche nell'applicazione della legge, fosse necessario interpretare restrittivamente l'espressione "datore di lavoro", e leggere in essa il solo significato di impresa, vero soggetto del diritto commerciale, sindacale e del lavoro . Di diverso avviso erano coloro che, in assenza di specifiche determinazioni legislative, non ravvisavano motivo a restringere la cerchia di soggetti obbligati e comprendevano quindi fra i destinatari dell'obbligo anche i privati datori di lavoro non imprenditori .
La legge del 1921 pose anche il principio dell'esonero dall'obbligo di assunzione delle aziende che, per le loro speciali condizioni, non fossero state nella possibilità di occupare invalidi (art. 12) e dei datori di lavoro che esercitavano lavorazioni a carattere stagionale o di breve durata per un periodo non superiore a tre mesi (art. 10 reg.). La legge n. 375 del 1950, in seguito, permise la riduzione dell'obbligo in favore degli imprenditori che occupavano in prevalenza personale femminile (art. 14 2° comma).
Nella dottrina si dubitò dell'opportunità di quest'ultima agevolazione, tenuto conto che proprio nelle imprese esercitanti lavorazioni leggere, come quelle a prevalenza di personale femminile, piu' facile poteva apparire l'inserimento di un lavoratore invalido. Per questo venne anche suggerita una lettura restrittiva della norma di favore, considerando beneficiate quelle imprese in cui la prevalenza del personale femminile fosse strettamente conseguente alla natura dell'attività in esse esercitata, tanto da palesare come accessorio il lavoro maschile nell'impresa .
La procedura che l'interessato al collocamento obbligatorio doveva rispettare iniziava con l'iscrizione nei ruoli provinciali di invalidi aspiranti al collocamento tenuti presso le rappresentanze provinciali dell'Opera nazionale degli invalidi di guerra e presso gli organi del collocamento.
Con la L. legge 3 Dicembre 1925 n. 2151, vennero soppressi gli organi del collocamento preesistenti e l'assunzione obbligatoria degli invalidi di guerra divenne di competenza esclusiva delle rappresentanze provinciali dell'Opera nazionale invalidi di guerra.
Il diritto all'iscrizione nei ruoli spettava ai soli invalidi disoccupati (art. 13 reg.) ma la successiva legge n. 375/1950 avrebbe aperto la possibilità di iscriversi anche agli invalidi già occupati.
La documentazione che l'invalido doveva presentare ai fini dell'iscrizione doveva certificarne che il grado di invalidità era compreso nei limiti massimo e minimo stabiliti dalla legge.
Il sistema della legge del 1921, analogamente a quello previsto dalla L. n. 482/1968, non tutelava l'invalido nella fase della richiesta della documentazione necessaria ai fini dell'iscrizione: in caso di erronea valutazione dell' Ufficiale Sanitario il prestatore di lavoro non aveva possibilità di chiedere il giudizio del Collegio medico provinciale. L'esclusione dalle liste provinciali dei collocabili si configurava quindi senza rimedio. Al contrario, nel caso fosse stato il datore di lavoro a lamentare l'erronea valutazione dell' Ufficiale Sanitario, il riesame era possibile ex art. 31 reg. Tale disparità venne eliminata dal regolamento della successiva L. n. 375 del 1950 che concesse all'invalido la facoltà di ricorrere al collegio medico in caso di valutazione negativa dell'Ufficiale sanitario (art. 6 D.P.R. 18 Giugno 1952 n. 1176).
Si richiedeva, anche, ai fini dell'iscrizione, l'esibizione di documenti atti a dimostrare le attitudini lavorative o professionali dell'invalido, anche in relazione all'occupazione cui aspirasse: l'interesse per la qualificazione professionale conseguita dall'invalido terminava qui (e lo stesso avviene con la normativa attualmente in vigore).
Le decisioni in ordine alle domande d'iscrizione competevano alla rappresentanza provinciale dell'Opera.
Una volta concessa l'iscrizione veniva rilasciata all'invalido una tessera personale. Questa era idonea a documentare e comprovare ufficialmente (esonerando l'imprenditore da ogni responsabilità a riguardo) la presenza nell'invalido di tutti i requisiti richiesti per beneficiare degli effetti di legge. In essa erano riportati, tra l'altro. il grado di educazione professionale conseguita e il grado di capacità lavorativa generica e specifica (art. 6).
Il sistema di collocamento obbligatorio posto in essere consisteva fondamentalmente nell'imposizione ai datori di lavoro dell'obbligo di rispettare un rapporto percentuale, di riservare, cioè, una quota dei posti dell'azienda a soggetti appartenenti alla categoria protetta.
Una via per adempiere agli obblighi di legge era quella dall'assunzione diretta. I datori di lavoro (art. 13 1° comma) avevano la facoltà di coprire il posto riservato con un invalido scelto liberamente all'interno degli elenchi oppure indipendentemente da questi. L'invalido che veniva così assunto doveva essere in possesso della documentazione comprovante la sussistenza dei requisiti richiesti dalla legge per beneficiare delle disposizioni sul collocamento obbligatorio. Le rappresentanze provinciali dell'Opera avevano il compito di controllare la regolarità delle assunzioni in tal modo effettuate e, in caso di accertamento di violazioni, fissare all'imprenditore un termine, non superiore ad un mese, entro il quale porsi in regola con le norme di legge (art. 18 reg.). Se optava per l'assunzione diretta il datore di lavoro poteva rivolgere la propria scelta anche verso quegli invalidi che non erano destinatari delle norme del collocamento obbligatorio perché privi della capacità lavorativa e conteggiarli ai fini del raggiungimento della percentuale prescritta (art. 3 reg.).
L'altra via per adempiere all'obbligo era quella delle assunzioni effettuate per il tramite delle rappresentanze provinciali dell'Opera (artt. 19 e 22 reg.). Queste inviavano, agli imprenditori che ne facevano richiesta, un elenco del personale invalido disponibile nel luogo di lavoro e località viciniori.
Il ricorso a questi organi, da facoltativo che era, diveniva obbligatorio nei casi in cui il datore di lavoro non riusciva a coprire per via diretta il numero dei posti riservati (art. 20 reg.).
La procedura per l'avviamento del minorato (che sarebbe poi stata, nella sostanza, confermata dalla successiva legge del 1950 n. 375) era tale da far escludere alla dottrina che dall'iscrizione nel ruolo scaturisse un diritto all'assunzione obbligatoria. La non vincolatività degli elenchi, la possibilità di assunzione diretta da parte del datore di lavoro, portavano necessariamente a concludere per un semplice valore di autorizzazione preventiva dell'iscrizione. Questa era prevista al solo fine di agevolare il datore di lavoro nell'esecuzione dell'obbligo e di prevenirlo dal rischio di una scelta illecita. Agli stessi organi preposti al collocamento speciale era riservato dalla legge un ruolo non determinante. Queste si limitavano a svolgere un'attività preventiva al collocamento vero e proprio (di identificazione dei soggetti beneficiari) ed una ad esso successiva (di controllo del rispetto delle percentuali prescritte) . Non essendo possibile configurare un diritto soggettivo dell'invalido, tutto il sistema del collocamento obbligatorio si riduceva, in ultima analisi, ad un obbligo sanzionato penalmente.
Tale opinione non era da tutti condivisa: la dottrina era divisa circa la natura delle limitazioni imposte alla libertà negoziale del datore di lavoro. Soprattutto ci si chiedeva quanto effettivo potere avessero gli organi del collocamento di inserire l'invalido nell'impresa nonostante l'inerzia dell'imprenditore.
Poiché la questione è stata affrontata anche di recente e piu' o meno nei medesimi termini, non ci sembra il caso di soffermarci a lungo su momenti ormai lontani di questo dibattito.
Ci limitiamo a dire che, ad avviso della maggiore dottrina e giurisprudenza, queste leggi non facevano intravedere la possibilità di un intervento degli organi del collocamento in grado, in caso di rifiuto di contrarre da parte del datore di lavoro, di costituire autoritativamente il rapporto di lavoro (come invece avveniva per le leggi tedesche sulle assunzioni obbligatorie): le leggi italiane ponevano in essere un semplice obbligo a contrarre a carico dell'imprenditore e lasciavano integra la natura negoziale del rapporto di lavoro, cosicché, in caso di rifiuto da parte del datore di lavoro di concludere il contratto con l'invalido, non era possibile instaurare altrimenti il rapporto e scattava la sola, indiretta, coazione a contrarre costituita dalla sanzione penale .
Un discorso a parte, però, dovrà essere fatto quando esamineremo le leggi sul collocamento obbligatorio dei privi della vista, mentre, a proposito degli invalidi del lavoro, ricorderemo i problemi intepretativi suscitati a riguardo dal D.Lgs.C.p.S. n. 1222.
Una volta costituito il rapporto di lavoro era possibile verificare che l'inserimento del minorato nell'azienda non recasse pregiudizio all'ambiente di lavoro: il prestatore di lavoro invalido o il datore di lavoro (e quest'ultimo anche prima dell'insaturazione del rapporto, in forza dell'art. 31 del regolamento) potevano, in ogni tempo, chiedere una visita collegiale di controllo per accertare le condizioni dell'invalido al fine di comprovare che l'invalido, per la natura ed il grado della sua mutilazione o invalidità e per le sue condizioni di salute non potesse riuscire di pregiudizio alla salute e sicurezza dei compagni di lavoro (art. 5). La visita veniva svolta da un apposito Collegio Medico provinciale.
Altre leggi sul collocamento obbligatorio prevederanno un organo con funzioni del genere e, ogni volta, faranno in modo che in esso vengano rappresentati sia gli interessi dei datori di lavoro, che quelli dei prestatori di lavoro, che, infine, quelli degli appartenenti alla categoria protetta. Le decisioni di questi collegi medici, se favorevoli all'invalido, attribuivano a questo il diritto ai salari perduti per l'allontanamento disposto dal datore di lavoro, in attesa del giudizio del collegio (art. 31 reg.).
La dottrina e la giurisprudenza ebbero modo di precisare come dall'obbligo di occupare predisposto dalla legge in esame e dalle seguenti, non scaturisse l'inamovibilità dell'invalido, rimanendo la facoltà di recesso ad nutum del datore di lavoro, intatta da ogni limitazione .
Per forza di cose, ogni volta che ricorre un obbligo di contrarre si affianca ad esso una predeterminazione del contenuto, e diversamente non poteva essere in materia di assunzioni obbligatorie. Per questo la legge prescriveva al datore di lavoro di applicare agli invalidi di guerra le normali condizioni di assunzione dell'azienda, nonchè, una volta istituito il rapporto, le normali condizioni di lavoro (art. 16).
Questo principio dell'uniformità del trattamento economico e normativo verrà poi confermato dalle leggi sul collocamento obbligatorio emanate a seguito di quella in esame, tanto da far ritenere a parte della dottrina che questo costituisse un principio generale da riconoscersi implicitamente anche nel silenzio della legge .
L'invalido collocato continuava a godere del trattamento di pensione di cui eventualmente avesse beneficiato, qualunque fosse il grado della rieducazione conseguita o l'occupazione per la quale fosse stato assunto (e sempre restando fermo il diritto a percepire l'intera retribuzione spettante al personale esercitante la medesima funzione) .
La legge 3 Giugno 1975 n. 375 estese i benefici del collocamento obbligatorio anche agli invalidi civili di guerra, i non militari, cioè, che avevano riportato un invalidità o una minorazione per fatto bellico.
Ciò, in realtà, era già nelle intenzioni del legislatore al momento in cui emanò il D.L.C.p.S. 2 Marzo 1948 n. 135 (rat. L. 3 Novembre 1952 n. 1790). Per un errore di coordinamento delle leggi, però, l'estensione non potè avere ad oggetto il collocamento obbligatorio.
Tale estensione fu osteggiata, durante i lavori parlamentari, dai militari invalidi di guerra, i quali invocavano una sorta di diritto nativo nei confronti dello Stato, tale da porli in una posizione giuridica non raffrontabile con quella degli invalidi civili di guerra. Si sosteneva che i militari invalidi dovevano l'infermità o la mutilazione per l'adempimento di un dovere e che quindi piu' di altri avevano diritto ad un atto di riconoscenza da parte dello stato.
Ad essi si rispondeva che non vi era motivo di disconoscere un diritto nativo al risarcimento verso lo stato anche a coloro che, nelle fabbriche, nelle città, avevano continuato a svolgere un'attività lavorativa, a rendersi utile, ad esporsi nonostante i rischi dei bombardamenti e gli eventi di una guerra che colpiva, crudelmente e senza discriminazioni. Si poteva anzi affermare che tale diritto spettasse in maggiore misura ai civili, i quali non erano obbligati a porre a repentaglio la propria persona, come invece i militari.
L'urgenza di un provvedimento legislativo ed il senso di solidarietà che i drammi vissuti avevano generato nella nazione, fece sì che fossero superate le remore dell'Associazione Nazionale degli invalidi e soprattutto dei datori di lavoro (preoccupati, a loro volta, per il calo di produttività che le imposizioni legislative avrebbero potuto comportare), si che nella stessa legge del 1950 furono contemplati come destinatari della tutela anche gli invalidi civili per fatto di guerra, pur se con distinte percentuali nella riserva dei posti (in un modo o nell'altro, comunque, la tutela disposta dalla legge del 1950 veniva ad interessare anche altre categorie ).
La legge n. 375/1950 enfatizzò piu' della precedente l'aspetto della effettiva qualificazione professionale dell'invalido.
Gli imprenditori di aziende con non piu' di 20 dipendenti avevano la facoltà di dimostrare l'assoluta impossibilità di utilizzare il minorato perché non provvisto del requisito professionale minimo indispensabile per il genere di lavoro, principale o ausiliario, praticato nell'azienda. In tal caso l'assunzione poteva essere rimandata per un periodo di 180 giorni, in attesa che fra i minorati si rendessero disponibili elementi piu' idonei (art. 3 3° comma reg.).
Così come il regolamento per l'applicazione della legge del 1921 n. 1312, anche il regolamento per l'esecuzione della legge del 1950 all'art. 3 stabiliva che l'invalido che avesse voluto avvalersi delle disposizioni della legge, inoltrando la domanda per l'iscrizione nei ruoli, avrebbe dovuto trovarsi nella condizione di disoccupato.
Una parte della dottrina notò come la norma richiedesse, indubbiamente un'interpretazione non strettamente letterale, onde superare il contrasto con il dettato dell'art. 43 del regolamento, in forza del quale lo stato di occupazione non avrebbe infirmato il diritto dell'invalido a fruire dei vantaggi disposti dalla legge nei concorsi e nelle assunzioni: l'art. 3 rendeva necessario il requisito della disoccupazione al solo fine dell'iscrizione nelle liste, onde finalizzare l'opera di collocamento espletata dalle rappresentanze alla tutela di quegli invalidi maggiormente bisognosi. Secondo questa dottrina, ciò non escludeva che attraverso le assunzioni dirette anche l'invalido già occupato potesse comunque beneficiare della tutela di legge, in conformità a quanto previsto all'art. 10 della legge n. 264 del 1949, per il quale potevano ottenere l'iscrizione nelle liste di collocamento anche i lavoratori occupati in cerca di altra occupazione. A completamento di queste argomentazioni si osservava come l'invalido già occupato, nel fruire dei benefici della legge, lasciava scoperto un posto che, comunque, sarebbe pur sempre spettato ad un invalido.
Il Consiglio di Stato risolse la questione affermando che, ai fini dell'iscrizione nei ruoli, non era necessario certificare lo stato di disoccupazione. Il Consiglio di Stato asserì che lo stato di disoccupazione era da intendersi in senso, non astratto ed oggettivo, ma relativo e soggettivo, riferito cioè all'occupazione cui aspirava l'invalido (che, beninteso, poteva anche essere, come nel collocamento ordinario, un'occupazione diversa da quella già praticata).
La legge del 1950 conteneva nel regolamento d'esecuzione (art. 28) il primo esempio di "scorrimento" fra i diversi beneficiari: qualora, infatti, il datore di lavoro non avesse coperto la percentuale prescritta grazie ad esonero o per forza di mancanza di invalidi del lavoro da collocare, questi era tenuto a raggiungere detta aliquota, comunque, attraverso l'assunzione di tanti orfani di guerra quanti erano gli invalidi di guerra non assunti.
Con l'art. 8 del regolamento di esecuzione si provvedeva, infine, al necessario coordinamento fra gli organi provinciali dell'Opera nazionale ed i corrispondenti Uffici di collocamento. In base all'art. 9 della legge sul collocamento del 29 Aprile 1949 n. 264, infatti, i mutilati e gli invalidi di guerra, i mutilati ed invalidi del lavoro, nonché i lavoratori dimessi dai luoghi di cura per guarigione clinica da affezione tubercolare avevano acquisito il diritto all'iscrizione nelle liste di collocamento tenute presso gli Uffici del lavoro. La legge n. 264 sul collocamento prescriveva, ai fini dell'inserimento nelle liste, la qualificazione per professioni e per mestieri. Questa era affidata alle apposite commissioni previste dalle leggi speciali, che nel caso in esame si identificavano con le rappresentanze provinciali dell'Opera.
Importante innovazione era quella introdotta dal 2° comma dell'art. 20 del regolamento di esecuzione il quale disciplinava, opportunamente, la questione della computabilità o meno, ai fini dell'adempimento agli obblighi di legge, dei lavoratori assunti invalidi e guariti nel corso del rapporto. Con tale norma, pur non istituendosi un diritto soggettivo in favore dell'invalido non piu' tale (e cioè restando nei limiti di una mera facoltà concessa al datore di lavoro), si rendeva probabile la sua permanenza in servizio, stante l'interesse del datore di lavoro ad evitare avvicendamenti di personale, soprattutto qualora si fosse trattato di sostituire un elemento, professionalmente addestrato e fisicamente valido, con un altro non avente tali requisiti.
Le norme regolamentari introdussero un principio anch'esso fatto proprio dalla successiva legge generale: esse attribuirono all'invalido la possibilità di adire il Collegio medico onde valutare la compatibilità della mansioni assegnategli dal datore di lavoro con le proprie condizioni fisiche (art. 14 reg.). In caso di giudizio favorevole all'invalido, il datore di lavoro era obbligato ad assegnarlo ad un'occupazione compatibile con le sue condizioni fisiche.
Si voleva, così, porre rimedio all'eventualità di arbitrarie e dannose scelte da parte del datore di lavoro, ma le norme non mancarono di suscitare dubbi di illegittimità per esubero rispetto alle previsioni della legge .
Con la legge 5 Marzo 1963 n. 367 il legislatore operò profonde e sostanziali modifiche alle norme previste dalla legge 3 Giugno 1950 n. 375. La piu' rilevante era quella relativa alle modalità del collocamento obbligatorio: a parte i diversi organi interessati la soluzione adottata dalla legge del 1963 sarebbe stata fatta propria dalla successiva legge generale n. 482/1968.
Le leggi del 1921 che quella del 1950 lasciavano all'imprenditore, ai fini dell'adempimento dell'obbligo di assunzione, la scelta fra il ricorso alle liste presso le rappresentanze provinciali dell'Opera e l'assunzione diretta. L'iscrizione nel ruolo dell'invalido costituiva una sorta di autorizzazione preventiva a favore del datore di lavoro, facilitato, così, nell'adempimento degli obblighi di legge ed esonerato dalle responsabilità e dalle difficoltà proprie dell'accertamento del possesso da parte del prestatore di lavoro delle qualità richieste.
Con le modifiche apportate dalla legge del 1963 il ricorso alle liste, da facoltativo che era, diveniva obbligatorio e l'iscrizione in esse diveniva per l'invalido presupposto imprescindibile per il godimento del trattamento privilegiato (art. 4): il datore di lavoro poteva procedere alle assunzioni prescritte solo tramite richiesta numerica rivolta alle rappresentanze provinciali dell'Opera, le quali avrebbero, quindi, scelto negli elenchi gli iscritti da avviare.
La dottrina e la giurisprudenza ebbero modo di chiarire come l'ulteriore limite alla libertà dell'imprenditore costituito dall'obbligo della richiesta numerica non fosse comunque sufficiente, così come nel collocamento ordinario, a far intravvedere l'imposizione di un'obbligo a contrarre, nè era possibile parlare di un diritto soggettivo all'assunzione in capo all'invalido iscritto nel ruolo: all'inadempimento dell'obbligo di riserva dei posti conseguiva sempre e comunque la mera inflizione della sanzione penale.
La legge del 1963 (e così farà anche quella del 1968) concedeva, comunque, al datore di lavoro di effettuare richiesta nominativa nei casi in cui con l'assunzione obbligatoria avesse dovuto assegnare alcuni tipi di mansioni tassativamente indicati. Ma anche nel caso di richieste nominativa il datore di lavoro era comunque tenuto ad attingere dagli elenchi tenuti presso le rappresentanze provinciali dell'Opera.
Invalidi del lavoro
Il D.L.C.p.S. del 3 ottobre 1947 n.1222 (ratificato con legge 9 Aprile 1953 n. 292) realizzò un sistema di collocamento obbligatorio nelle imprese private a favore dei mutilati ed invalidi del lavoro.
Secondo l'avviso di un certo orientamento dottrinale il sistema così istituito ricalcava quello previsto dalla normativa a favore degli invalidi di guerra. Secondo il pensiero di altri, invece, il decreto, nonostante le indubbie analogie con quelle leggi, presentava spiccate differenziazioni di disciplina rispondenti all'intervenuta evoluzione del sistema del collocamento .
V'era, infine, chi, nella dottrina, affermava che il decreto ponesse in essere una procedura per le assunzioni obbligatorie del tutto originale .
Il provvedimento in questione, in realtà, si caratterizzò, piu' che altro, per un eccesso di laconicità (riguardo, peraltro punti non secondari della disciplina). Le sue lacune costrinsero la giurisprudenza ad un'opera di interpretazione creativa procedente, per forza di cose, in modo empirico, incerto e, spesse volte, contraddittorio. L'infelice tecnica di redazione adottata offrì lo spunto per la proposizione della questione di legittimità costituzionale del decreto, per contrasto con gli artt. 3, 38, 41 e 42 della Costituzione; la Corte Costituzionale si pronunciò per la legittimità del decreto e dei sistemi di collocamento obbligatorio in generale .
Ai fini del raggiungimento della percentuale prescritta dal decreto, il datore di lavoro poteva tener conto degli invalidi del lavoro che egli avesse assunto già prima dell'entrata in vigore del decreto (art. 1 3° comma). Questi, per la prevalente dottrina e giurisprudenza, dovevano riportare un'invalidità non inferiore al 40 per cento (quella cioè richiesta ai fini dell'ammissione al collocamento obbligatorio), onde evitare troppo agevoli e generalizzate coperture delle quote d'obbligo. A fare le spese dell'adozione di questa soluzione interpretativa erano, però, gli invalidi c.d. "minori" eventualmente già assunti, i quali, benché di maggiore efficienza lavorativa, non risultavano, in realtà, utili al datore ai fini del raggiungimento della percentuale prescritta e venivano così a correre il concreto rischio del licenziamento.
Dottrina e giurisprudenza dovettero anche affrontare il problema della computabilità o meno del lavoratore minorato che in costanza del rapporto avesse superato il limite d'età o quello minimo di riduzione della capacità lavorativa al di sopra dei quali non è possibile usufruire del collocamento agevolato. Dalla parte della tesi negativa, accolta dalla Cassazione , v'erano ragioni di logica giuridica, forse eccedenti in rigidità ed astrattezza. Dall'altra parte la dottrina, che argomentava a favore della computabilità di tali soggetti, sulla scorta di molteplici considerazioni: si constatava, per esempio, come fosse da ritenersi maggiore l'invalidità di un minorato che fosse anche anziano, si affermava, poi, la presumibilità di un trattamento di benevolenza del legislatore nei confronti del datore che, ancor prima dell'esistenza del decreto, avesse adempiuto spontaneamente all'obbligo di assunzione . Infine, la dottrina sottolineava la difficile quantificazione del parametro della "riacquistata capacità lavorativa"; si affermava che la valutazione di questo "recupero" non poteva effettuarsi, semplicemente, su di un piano astratto, ma, piu' problematicamente, con riferimento concreto a quell'ambiente di lavoro in cui esso si era manifestato . Si aggiungevano, naturalmente, considerazioni squisitamente umanitarie a favore dei minorati anziani e l'amara constatazione che, seguendo l'orientamento della Cassazione, si finiva cinicamente col punire quell'invalido che, spesso meritoriamente ed a costo di molteplici sacrifici, era riuscito a rimpossessarsi di parte dell'abilità lavorativa perduta .
Le Sezioni dell'A.N.M.I.L. erano preposte alla compilazione del ruolo dei mutilati ed invalidi collocabili ed erano tenute ad inviare trimestralmente copia di esso all'Ufficio provinciale del lavoro nonché alla sede centrale dell'assicurazione. Finivano qui i compiti dell'associazione mutilati ed invalidi. Ad essa, stante la sua natura privatistica, fu riservato un ruolo secondario.
Era la Commissione, invece, e quindi lo stesso Ufficio provinciale del lavoro (la cui competenza derivava anche dalla legge sul collocamento ordinario) a presiedere al collocamento speciale ed, in effetti, a provvedere alla formazione dei ruoli tenuti presso le sezioni. Infatti secondo l'art. 4 la Commissione aveva il compito di dichiarare l'idoneità al lavoro dei mutilati ed invalidi, distinguendoli per categorie professionali, e di presiedera al loro collocamento.
L'art. 4 usava, a quest'ultimo proposito, l'espressione "e ne cura il collocamento". Ora, non solo sfuggiva il significato di tale passo del decreto, ma risultava non molto chiaro altresì, il rapporto che intercorreva fra la valutazione dell'A.N.M.I.L e quella della Commissione, quale delle due fosse decisiva, e, nell'eventualità avesse dovuto esserlo quella della Commissione, perché fra i suoi membri non comparisse neanche un medico.
La soluzione della questione circa il senso dell'espressione "e ne cura il collocamento", era strettamente collegata a quella riguardante la situazione giuridica degli iscritti nei ruoli (l'art. 2 parlava, a proposito di questi, di un "diritto ad essere assunti"). Ebbene: secondo alcuni, curare non significava né imporre né provvedere ma semplicemente attribuire all'iscritto una qualificazione che, lungi dall'investirlo di un diritto all'assunzione, rendeva quest'ultima idonea ai fini della copertura della percentuale prescritta di posti riservati. Secondo altri , l'espressione "e ne cura il collocamento" doveva essere intesa come richiamo ai poteri e funzioni attribuite dalla n. 264 del 1949 agli Uffici del collocamento. Con riferimento a quella legge dovevano, quindi, sia determinarsi i casi in cui il datore di lavoro era tenuto alla richiesta nominativa o numerica, sia chiarire la situazione giuridica dell'iscritto nelle liste. Venendo così ad operare i principi in materia di collocamento ordinario dall'inserimento nelle liste sarebbe dovuta derivare in favore del minorato iscritto solamente una posizione di mero interesse ed aspettativa; dall'avviamento però sarebbe disceso un vero e proprio diritto all'assunzione. Questa era anche la conclusione cui pervenne, in seguito a ripetute oscillazioni, la Cassazione.
In caso di rifiuto di assunzione il lavoratore avviato dalla Commissione aveva quindi diritto ad un risarcimento del danno. Questo era escluso nel caso che il datore di lavoro, fornendo la prova dell'erroneità del giudizio della Commissione, non avesse motivato il rifiuto d'assunzione rilevando la presenza nell'invalido designato di quelle condizioni che ne avrebbero giustificato l'immediato licenziamento .
Ricordiamo, comunque, che prima di pervenire a questo orientamento circa la situazione giuridica soggettiva dell'avviato, la giurisprudenza, dopo una serie di decisioni contraddittorie, era giunta ad attribuire alla Commissione addirittura un potere di collocamento d'ufficio del lavoratore invalido .
La dottrina dubitò subito della razionalità di tale soluzione, soprattutto per il fatto che, non essendo previsto dal decreto la possibilità di inserire le ragioni del datore all'interno di questo procedimento d'avviamento tutto amministrativo, si rendevano inevitabili successive contestazioni e liti, e si rischiava di trascurare le situazioni peculiari di ogni singola azienda (sebbene all'interno dello stesso orientamento giurisprudenziale tali esigenze fossero state comunque considerate e, per fare un esempio, argomentando dalla distinzione fra sessi prevista dall'art. 7 si affermò il diritto del datore di lavoro a che la Commissione tenesse conto, nell'invio di personale, del rapporto esistente fra lavoratori uomini e donne all'interno dell'azienda) .
Era data facoltà ai datori di lavoro di risolvere il rapporto (art. 5), qualora, a giudizio dell'Istituto nazionale infortuni sul lavoro e dell'Ispettorato del lavoro, fosse risultato un aggravamento dell'invalidità, tale da impedire al lavoratore di prestare le mansioni per le quali era stato assunto.
I dubbi della dottrina nascevano dal fatto che di questo necessario legame fra la continuazione del rapporto e le mansioni affidate al momento dell'assunzione, non era dato rinvenire traccia nel sistema della legge. Le critiche si rafforzavano se si ricordava che implicito presupposto della legge era l'imposizione al datore di lavoro dell'onere di ricerca delle mansioni piu' rispondenti alle caratteristiche del lavoratore invalido. Concludendo diversamente, si sarebbero potute offrire comode scappatoie dagli obblighi di legge.
La risoluzione era possibile anche quando l'Ispettorato avesse accertato la perdita totale della capacità lavorativa o il possibile pregiudizio per la salute ed incolumità dei compagni di lavoro e la sicurezza degli impianti. Anche nel caso del rischio connesso all'impiego del minorato la dottrina non potè non rilevare come il suo sorgere sarebbe potuto dipendere, in molti casi, da scelte errate dell'imprenditore e come, quindi, fosse assurdo far nascere da ciò un via libera al licenziamento.
Secondo un altro orientamento dottrinale, peraltro conforme alla giurisprudenza della Cassazione, l'art. 5 non individuava le uniche cause possibili di risoluzione del rapporto con l'invalido del lavoro, ma ne aggiungeva di speciali a quelle d'ordine generale. Quindi, non restringendo le ipotesi di licenziamento e lasciando salva la facoltà di recesso ad nutum dell'imprenditore (fermo però l'obbligo di assumere un altro invalido a copertura del posto riservato), l'art. 5 era ben lungi dal voler costruire per l'invalido (come inizialmente aveva affermato qualche giuduce di merito) una situazione giuridica di diritto alla conservazione del posto o ad una durata minima del rapporto di lavoro e lasciava, invece, inalterata la facoltà del datore di lavoro di recedere ad nutum .
Non era chiaro se dal licenziamento per queste vie ottenuto derivasse o meno una incollocabilità assoluta dell'invalido. Non era neanche pacifico se, come si era affermato in giurisprudenza , il datore di lavoro avrebbe potuto invocare il giudizio dell'Ispettorato circa il ricorrere delle condizioni cui all'art. 2, prima dell'instaurazione del rapporto, al fine di rifiutare l'assunzione. Avallando questa ipotesi interpretativa si sarebbe potuto configurare il tutto come una vera e propria procedura di annullamento per vizi di merito dello stesso atto amministrativo di assegnazione.
Seguì la legge 14 Ottobre 1966 n. 851, la quale fra l'altro adotto quel principio dello scorrimento, già adottato dal legislatore in precedenza: qualora non vi fossero stati invalidi del lavoro da collocare le pp.aa. e le aziende private individuate all'art.1 del D.L.C.p.S. 1222/1947 erano tenute a coprire la percentuale d'obbligo con orfani e vedove di caduti sul lavoro, cui peraltro la legge espressamente estendeva le norme allora vigenti per l'ammissione agli impieghi ed il collocamento obbligatorio degli orfani e vedove di guerra (fermo restando il rispetto delle aliquote cui alla L. n. 1228/1965 concernente provvedimenti in favore delle vedove e degli orfani di guerra e delle vedove e degli orfani dei caduti per causa di servizio).
Per quanto riguardava le assunzioni presso le pp.aa. la legge introduceva un meccanismo di scorrimento, ancora piu' "evoluto", che considerava tutte le categorie protette (art. 15).
Reduci
A differenza delle leggi sul collocamento obbligatorio degli invalidi di guerra, le norme sull'assunzione obbligatoria dei reduci si motivavano con l'esigenza di fornire un sostegno a soggetti di piena capacità lavorativa e quindi con normali opportunità di accedere ad un impiego. Se lo Stato interveniva in favore di questa categoria di disoccupati e non di altre, ciò avveniva, in primo luogo per rimuovere, o almeno alleviare, la gravità e drammaticità delle condizioni di bisogno in cui essi versavano e, in secondo luogo, in ragione della peculiarità della causa stessa dello stato di indegenza.
Le difficoltà che i reduci incontravano trovavano origine, come per gli invalidi di guerra, dalle drammatiche conseguenze del secondo conflitto mondiale: una tragedia collettiva che rendeva imprescindibile l'esigenza di un interessamento diretto e di un sostegno concreto da parte dei pubblici poteri. Il fatto che i collocabili godessero di piena capacità lavorativa, faceva sì che non occorresse per loro apprestare quegli accertamenti sull'idoneità al lavoro tipici delle norme a favore degli invalidi, nè di inserire nella procedura attività di organi differenti da quelli del collocamento ordinario.
Il primo provvedimento in materia fu il D.L.Lgt. 4 Agosto 1945 n. 453.
Ai reduci non era riservata una aliquota dei posti disponibili nelle aziende obbligate ma una percentuale, piuttosto elevata (50 %), delle nuove assunzioni. L'obbligo era, naturalmente temporaneo e valeva solo per i due anni successivi all'entrata in vigore del decreto (lo stesso valeva per le pp.aa.).
Per beneficiare della riserva a favore della categoria, il reduce doveva possedere l'idoneità richiesta per l'impiego (art. 3).
Il decreto legislativo luogotenenziale 14 Febbraio 1946 n.27 che seguì, subordinava il trattamento privilegiato alla condizione che il reduce fosse sprovvisto dei mezzi indispensabili per il mantenimento proprio o della famiglia con lui convivente ed adottò il metodo previsto dalle leggi sul collocamento obbligatorio di riservare ai soggetti protetti una quota del personale in servizio presso le aziende (per effetto dell'art 1 del successivo D.L.Lgt 5 Marzo 1946 n. 81 i Prefetti vennero autorizzati ad aumentare con propria ordinanza, in caso di necessità, l'aliquota delle assunzioni presso le aziende private, in relazione alle esigenze locali).
Ad occuparsi del collocamento obbligatorio dei reduci erano gli Uffici del lavoro in accordo con gli Uffici provinciali per l'assistenza postbellica ad essi il datore di lavoro poteva rivolgere richiesta nominativa.
Il decreto si preoccupava, anche, di garantire la stabilità dell'occupazione raggiunta obbligatoriamente dal reduce ed imponeva ai datori di lavoro un divieto di licenziamento dei soggetti assunti in forza delle sue disposizioni (art. 6 1° comma). Il divieto cessava trascorso un anno dall'assunzione o dalla riassunzione e non riguardava comunque i licenziamenti dovuti a giusta causa o a cessazione dell'attività dell'azienda.
Aggiungiamo che, in forza del successivo R.D.Leg. 30 Maggio 1946 n. 479, venne stabilito che, nei licenziamenti per esuberanza di personale, i reduci potessero essere inclusi solo nella misura del 50 per cento.
In seguito vennero emanate leggi di proroga dell'efficacia del D.L.Lgt. del 1946 n.27. Alcune di queste dovevano disporre retroattivamente perché emanate successivamente allo scadere dell'efficacia delle precedenti, ponendo problemi circa la sorte dei licenziamenti effettuati nel periodo intermedio. L'ultima legge in materia fu la 12 Giugno 1955 n. 511, la quale prolungò l'efficacia delle precedenti fino al 31 Dicembre 1955.
Addetti alla bonifica campi minati
Agli addetti alla bonifica dei campi minati vennero estesi i benefici previsti per le altre categorie in ordine al collocamento obbligatorio:
se avevano prestato servizi particolarmente rischiosi usufruivano delle disposizioni allora vigenti a favore dei reduci di guerra (art. 10 1° comma D.L.Lgt. 12 Aprile 1946 n. 320);
se nell'espletare queste operazioni, fossero divenuti invalidi beneficiavano le norme di protezione ed assistenza previste per i mutilati ed invalidi di guerra (art. 10 2° comma D.L.Lgt. 12 Aprile 1946 n. 320);
con il D.L.C.p.S. 1 Novembre 1947 n. 1768 si estesero alle vedove ed agli orfani degli addetti alle operazioni di bonifica di immobili minati, deceduti in seguito a lesioni incontrate nell'espletamento di queste operazioni, tutte le norme di assistenza e protezione previste per le vedove e gli orfani di guerra (art. 1).
Profughi
Gli eventi bellici ed il processo di decolonizzazione, produssero nel nostro paese dei notevoli flussi di migrazione. Coloro che tornarono in Italia come profughi lo fecero per cause di forza maggiore ed in condizione di estrema precarietà; da qui l'esigenza di un sostegno da parte della collettività, motivato peraltro dal senso di riconoscenza per chi aveva tenuto alto il prestigio della nazione in terra straniera .
Dopo i primi provvedimenti che, semplicemente estesero ai profughi i benefici spettanti ai reduci (D.L.C.p.S. 3 Settembre 1947 n.885 e D.Lgs. 26 Febbraio 1948 n. 104), intervenne la L. 4 Marzo 1952 n. 137 che impose alle imprese appaltatrici di opere pubbliche l'obbligo di riservare ai profughi una percentuale dei posti di lavoro (art. 27).
Poi, il legislatore intervenne con la legge 27 Febbraio 1958 n. 130 che obbligò ai privati datori di lavoro di riservare ai profughi una determinata aliquota delle nuove assunzioni (art. 2).
L'elenco dei profughi veniva stilato dalle rappresentanze dell'Opera ma il collocamento era di esclusiva pertinenza degli ordinari organi di collocamento.
Una volta assunti, i soggetti in questione avevano diritto ad essere mantenuti in servizio per almeno due anni, a decorrere dalla data di assunzione, salvo i casi di licenziamento per giusta causa o per cessazione dell'attività dell'azienda.
Invalidi per servizio
La legge 15 Luglio 1950 n. 539, estendeva ad i mutilati ed invalidi per servizio ed ai congiunti dei caduti per servizio, i benefici spettanti ai mutilati ed invalidi di guerra ed ai congiunti dei caduti in guerra, la normativa, però, era risultata inapplicabile, non essendo stato chiarito quali benefici fossero da applicarsi e con quali modalità.
Seguì la legge 24 Febbraio 1953 n. 142, sull'assunzione obbligatoria al lavoro degli invalidi per servizio e degli orfani dei caduti per servizio. Con essa il legislatore richiamava nella sostanza la normativa introdotta dalla L. n. 375/1950 e dal relativo regolamento d'esecuzione, normativa che, oltretutto, conservava un'applicabilità residuale per quanto risultava non disciplinato dalla legge in questione. La stessa legge n.367 del 1963 sugli invalidi di guerra, apportante modifiche alla L. n. 375/1950, avrebbe poi espressamente ribadito all'art.20 che le proprie norme e quelle del regolamento n. 1176/1952 sarebbero state valide, in quanto applicabili, per quanto non disciplinato direttamente dalla L. n. 142/1953.
Quanto alle percentuali di posti riservati (art. 9 2° comma) i soggetti obbligati dovevano occupare un invalido per servizio per ogni tre posti riservati agli invalidi civili di guerra. Le assunzioni obbligatorie di invalidi per servizio sarebbero, quindi, state computate a copertura delle percentuali stabilite dalla legge n. 375/1950 a favore degli invalidi civili di guerra, ma non potevano in alcun caso essere effettuate in eccedenza alle dette percentuali.
Per quanto concerneva gli orfani dei caduti per causa di servizio, si stabiliva l'applicabilità delle norme sul collocamento obbligatorio degli orfani di guerra (art. 9 4° comma).
I compiti di tutela e di mediazione nelle assunzioni erano riservati agli ordinari uffici di collocamento. Questi formavano gli elenchi di aspiranti al collocamento coattivo ed i datori di lavoro soggetti all'obbligo di assunzione dovevano, qualora non vi avessero provveduto direttamente, rivolgere loro le richieste di lavoratori considerati dalla legge.
Al datore di lavoro era quindi concessa la facoltà di ricorrere all'assunzione diretta (artt. 11 e 15): poiché, era ragionevole supporre che la legge fosse rimasta indenne dalle modifiche (di segno opposto in materia di assunzioni dirette) apportate dalla L. n. 367/1963 (il cui intervento nell'ambito delle assunzioni obbligatorie di invalidi per servizio ed orfani per causa di servizio era meramente residuale), il legislatore, senza volerlo, poneva in essere, in ultima analisi, una sostanziale divergenza fra il sistema del collocamento obbligatorio creato a favore degli invalidi di guerra e quello istituito a beneficio degli invalidi per servizio; divergenza contraria alla ratio della stessa L. n. 142 e, comunque, difficilmente giustificabile.
Ex tubercolotici
Col decreto legislativo 15 Aprile 1948 n. 538 si disciplinò l'avviamento al lavoro e la speciale tutela a beneficio dei lavoratori dimessi da luoghi di cura per guarigione clinica da affezione tubercolare. Il sistema che con il decreto venne istituito aveva, in primo luogo, il pregio di porre l'attenzione sull'idoneità specifica del minorato di cui si effettuava il collocamento obbligatorio ed, in secondo luogo, il merito di prevedere l'avviamento per vie privilegiate solo come ultimo espediente. Il decreto, infatti, si curava, prima di tutto di rendere possibile la riqualificazione del tubercolotico e di favorirne l'occupazione secondo le procedure ordinarie; quest'ultimo risultato veniva perseguito attraverso l'abrogazione delle disposizioni limitanti o vietanti l'assunzione o la riassunzione dell'ex tubercolotico.
L'obbligo di assunzione era esclusivamente a carico delle case di cura sanatoriali, dipendenti da enti pubblici o da privati (art. 3). Secondo il parere del Consiglio di Stato soggetti obbligati erano da ritenersi le case di cura esclusivamente a carattere sanatoriale e non anche le case di cura che avessero, tra gli altri, anche un reparto sanatoriale. L'opinione del Consiglio di Stato poggiava sull'interpretazione letterale del testo del decreto ed evitava quelle difficoltà nel computo del personale che sarebbero risultate qualora si fosse ritenuta sufficiente la presenza di un reparto dedicato al risanamento dei tubercolotici. In questo caso infatti le soluzioni sarebbero state due: o quella di calcolare l'intero personale della casa di cura, con la conseguenza irrazionale di computare anche gli addetti ai reparti non sanatoriali, oppure quella di considerare i soli addetti ai reparti sanatoriali ed in questo caso facendo riferimento a mere situazioni di fatto, difficilmente accertabili e fonti di incertezza .
Non era ben chiaro in cosa consistesse l'obbligo prescritto alle case di cura.
Secondo una certa dottrina , l'obbligo di assunzione concerneva la copertura dei posti vacanti e non implicava assunzioni in soprannumero. Ciò sarebbe risultato dal 3° comma dell'art. 3, secondo il quale in caso di insufficienza di posti vacanti le assunzioni sarebbero state fatte in seguito a vacanze.
Di diverso avviso era chi , suggerendo di non farsi vincolare da una dizione della legge infelice e fuorviante, riteneva che l'obbligo consistesse nel riservare agli extubercolotici, alla data di entrata in vigore del decreto, la percentuale prescritta. Per giungere a questo risultato interpretativo e contestare l'evidente significato della lettera del decreto questa dottrina era comunque costretta a ricorrere ad argomentazioni, a dir poco, ardite.
Organi incaricati del collocamento degli ex tubercolotici erano delle speciali Commissioni istituite presso gli Uffici del collocamento ordinario.
In ordine all'adempimento dell'obbligo da parte delle case di cura sanatoriali, nell'ultimo comma dell'art. 3 si stabiliva che queste avessero, si, facoltà di scelta dell'ex tubercolotico da occupare, ma solo "fra gli iscritti negli elenchi" predisposti dalle Commissioni.
Per parte dei commentatori , le cose stavano diversamente: il datore di lavoro era obbligato a ricorrere all'elenco solo al momento della prima applicazione della legge, mentre era tenuto in seguito a rispettare la percentuale (entro 30 giorni dal verificarsi di vacanze) senza necessariamente dover ricorrere agli elenchi della Commissione.
La casa di cura era tenuta ad adibire i lavoratori extubercolotici a mansioni cui fossero fisicamente adatti (art. 3 1° comma). A garanzia di questo, alla Commissione era attribuito un compito di vigilanza, nonché, in caso di riscontro negativo, il potere di prescrivere il cambiamento delle mansioni (art. 8 2° comma lett. c). Il decreto non specificava però quale fosse l'efficacia della prescrizione e quali le conseguenze in caso di violazione.
Orfani e vedove
La speciale tutela nell'accesso al mondo del lavoro che il legislatore accordò alla categoria degli orfani di guerra ricalcava, in larga misura, quella concessa alla categoria dei mutilati ed invalidi di guerra.
Quel dovere di solidarietà e quel riconoscimento del debito da parte della nazione, che aveva a suo tempo giustificato l'intervento del legislatore a favore di coloro che per la patria si erano sacrificati, veniva ora riconosciuto ed esteso ai loro familiari. Le leggi sulla categoria in esame si basavano quindi su motivi che esulavano da quelli strettamente di assistenza cui all'art. 38 della Costituzione.
La L. 26 luglio 1929 n. 1397 istituiva l'Opera nazionale per gli orfani di guerra. Ad essa fece seguito il regolamento per l'esecuzione approvato con il Regio decreto del 13 novembre 1930 n. 1642.
La condizione di orfano di guerra risultava dall'iscrizione nei registri tenuti presso i Comitati provinciali dell'Opera. Presso i Comitati provinciali erano altresì formati dei ruoli speciali finalizzati al collocamento obbligatorio (art. 63).
Per quanto riguardava l'obbligo del collocamento a carico dei privati imprenditori, questo risultava concepito come sussidiario rispetto a quello istituito a favore degli invalidi di guerra: allorquando si fossero trovati nell'impossibilità di assumere invalidi di guerra nel numero prescritto dalla legge del 1921 n. 1312, i privati datori di lavoro erano tenuti a compensare la differenza mediante assunzione di orfani di guerra (art. 58). Questa impossibilità di assunzione era automaticamente riconosciuta nel caso che il Ministro per il lavoro avesse concesso l'esonero previsto dall'art. 12 della legge del'21 n. 1312.
Naturalmente era anche plausibile che le particolari condizioni dell'azienda, tali da giustificare l'estinzione dell'obbligo di collocamento di personale invalido di guerra, fossero idonee a giustificare un'estensione dell'esonero anche nei confronti dell'obbligo di assunzione di orfani di guerra (art. 59) (la concessione dell'esonero era, però, limitata ai casi di eccezionale comprovata necessità).
L'imprenditore aveva la facoltà di occupare orfani di guerra in numero maggiore di quello prescritto (art. 60). In questo caso, se da un lato, gli assunti in esubero erano esclusi dal computo del personale valido ai fini del collocamento di invalidi di guerra, dall'altro, all'imprenditore era fatto divieto di licenziare gli invalidi di guerra già alle proprie dipendenze che fossero risultati eccedenti. Per meglio dire (di divieto vero e proprio non si può parlare tenuto conto della possibilità del licenziamento ad nutum), l'imprenditore non poteva motivare il licenziamento dell'invalido sul solo presupposto del mutamento della percentuale. Questa, infatti, rimaneva inalterata nei confronti (e a garanzia) degli invalidi già occupati obbligando il datore a rimpiazzare comunque l'invalido licenziato con un altro invalido.
La legge del 1926 n. 1397 fu in seguito abrogata e sostituita dalla legge 13 Marzo 1958 n. 365 (mentre per effetto della legge 23 Febbraio 1960 n. 92 la qualifica di orfano di guerra, per ogni effetto di legge, venne riconosciuta anche a coloro che avevano perduto la madre per fatto di guerra).
La legge del 1958 n. 365 era, comunque, in materia di collocamento obbligatorio, del tutto identica a quella del 1926 n. 1397.
La successiva legge 15 Novembre 1965 n. 1288 introdusse nuove disposizioni sull'assunzione obbligatoria presso le aziende private e la pubblica Amministrazione delle vedove e degli orfani di guerra e delle vedove e degli orfani dei caduti per causa di servizio.
Si obbligarono solo le imprese di considerevole consistenza (100 dipendenti) e si impose loro di riservare agli orfani e vedove in questione un'aliquota (1 %) dei posti esistenti.
I privati datori di lavoro potevano direttamente assumere i soggetti compresi negli speciali albi, aventi una qualifica impiegatizia o una particolare specializzazione o qualificazione, oppure in possesso degli attestati di conseguita idoneità rilasciati dalle istituzioni scolastiche o dai corsi di formazione professionale promossi o autorizzati dal Ministero del lavoro (art. 5).
Per il tramite degli organi del collocamento ordinario e delle rappresentanze dell'Opera, invece, e con richiesta numerica, dovevano essere effettuate le assunzioni dei soggetti protetti non in possesso dei citati attestati e qualifiche.
Ciechi
La legge 14 luglio 1957 n. 594, in armonia con le finalità di assistenza e di avviamento professionale dei minorati cui all'art. 38 della Costituzione, obbligò le pubbliche Amministrazioni, gli Enti pubblici, le aziende statali ed i privati datori di lavoro ad assumere tanti minorati della vista, abilitati alle funzioni di centralinista, quanti erano gli uffici, sedi o stabilimenti dotati di centralino telefonico di smistamento a piu' di un posto di lavoro (art. 1).
Esclusi dall'applicazione della legge erano, sia per i privati che per le pp.aa., le centrali ed i centralini destinati a pubblico servizio. Cosa dovesse intendersi con quest'ultima espressione non era molto chiaro, anche perchè intepretandola letteralmente questa sembrerebbe, paradossalmente, escludere dall'obbligo le stesse pp.aa.
Secondo alcuni la legge voleva con questa espressione riferirsi al servizio telefonico dell'Azienda di Stato e delle aziende concessionarie delle reti telefoniche, ad avviso di altri, invece, stando anche alle spiegazioni espresse durante i lavori preparatori, la legge voleva indicare i servizi a disposizione del pubblico, nei quali si svolgessero operazioni non solo particolarmente complesse ma anche delicate (quali per es. quelle svolte dalle amministrazioni militari) .
La legge non dava alcuna definizione precisa per identificare i soggetti beneficiari delle sue disposizioni e parlava indifferentemente di ciechi e di minorati della vista. Parte della dottrina giustificava tale lacuna ritenendo che l'espressione minorati della vista indicasse coloro che erano tutelati dall'Unione Nazionale Ciechi e godevano dell'assegno previsto dalla legge 9 Agosto 1954 n. 632, coloro cioè che avevano una minorazione della vista del 90% ed erano equiparati nell'assistenza al cieco integrale .
L'avviamento avveniva ad opera del Ministero del lavoro (il quale curava la formazione degli elenchi), per mezzo degli Uffici regionali e provinciali del lavoro (art. 5).
La legge prevedeva che per i privati datori di lavoro l'obbligo sarebbe scattato solo al momento delle nuove assunzioni posteriori all'entrata in vigore della legge. Si trattava, quindi, di un vero e proprio obbligo a contrarre, che sorgeva (in presenza della condizione oggettiva richiesta dalla legge all'art. 1) solo al momento delle nuove assunzioni. Questo era l'effetto di un emendamento, inserito in sede di Commissione parlamentare, motivato dal timore che l'assunzione dei ciechi potesse provocare il licenziamento del personale valido già occupato, ed in particolare di quello femminile.
In realtà procrastinando la nascita dell'obbligo al momento delle nuove assunzioni si rischiava di rendere estremamente lenta l'attuazione del collocamento auspicato dalla legge e di rendere difficile l'accertamento delle violazioni (non v'era, infatti, obbligo di informare il Ministero del lavoro riguardo le nuove assunzioni). Secondo parte della dottrina, lo slittamento del sorgere dell'obbligo al momento delle nuove assunzioni riguardava anche le pubbliche Amministrazioni .
Dalla lettera della legge doveva desumersi che il datore di lavoro non potesse avvalersi della richiesta nominativa, dovendo, invece, concludere il contratto con la persona inviata dal Ministero. Ciò risultava confermato dalla sanzione prevista all'art. 7 a carico dei datori di lavoro che si fossero rifiutati di assumere i centralinisti .
Ora, siccome la legge in esame, a differenza di altre, obbligava il datore di lavoro ad assumere il lavoratore inviatogli e non a rispettare semplicemente la percentuale (in analogia con quanto previsto dalla legge sul collocamento ordinario) si doveva, secondo l'avviso di una certa dottrina, dedurre che da essa scaturisse un vero e proprio diritto soggettivo in favore del cieco avviato, che gli dava titolo, di fronte al rifiuto del datore di lavoro, al risarcimento del danno ed alla costituzione di parte civile .
Connessa a tale questione era quella riguardante la natura e la forza dell'atto d'avviamento cui all'art. 5 della legge: vi era chi sosteneva che questo fosse idoneo a costituire per atto amministrativo il contratto fra i soggetti interessati (visto che si innestava ad un vero e proprio obbligo di assumere); altri affermavano che, tenuto anche conto dell'esistenza di un'art. 7 che puniva i datori di lavoro inadempienti all'obbligo di assunzione, l'atto di avviamento fosse, semplicemente, costitutivo di un rapporto preliminare legale, il quale faceva salva la necessità, ai fini della costituzione del rapporto di lavoro, di addivenire alla conclusione del contratto (anche con l'ausilio di una sentenza costitutiva ex art. 2932 c.c.) .
La legge del 1957 n. 594 subì delle modifiche per effetto della legge 28 Luglio 1960 n. 778 : queste riguardarono la definizione dei soggetti obbligati abrogandosi l'esclusione dall'obbligo dei centralini con un solo posto di lavoro, che la precedente legge invece prevedeva al fine di evitare l'isolamento del cieco.
I privati datori di lavoro erano obbligati ad occupare i centralinisti ciechi, nel caso avessero dovuto procedere a nuove assunzioni di centralinisti, qualora negli uffici, sedi o stabilimenti della propria azienda, disponessero di un centralino di smistamento a piu' di un posto di lavoro, od un centralino ad un solo posto di lavoro con almeno cinque linee urbane. Quest'ultima innovazione fu criticata in dottrina: si disse che prevedibilmente l'applicazione sarebbe stata problematica, perché eccessivamente gravosa per i datori di lavoro e, al tempo stesso, facilmente eludibile (sarebbe stato sufficiente ridurre le linee da 5 a 4) .
Con la legge 5 Marzo 1965 n. 155 vennero apportate modifiche alle norme sull'assunzione obbligatoria di centralinisti ciechi così come risultanti dall'innesto della L. n. 778 del 1960 sulla L. n. 594 del 1957.
Ferma restando la definizione di centralino telefonico fissata all'art. 1 della n. 594 del 1957, si dettava chiaramente quali fossero i centralini esclusi dall'obbligo di assunzione, risolvendo così i le questioni interpretative sorte in precedenza.
Siccome il 4° comma dell'art. 1 della legge n. 778 del 1960 poneva per i privati datori di lavoro l'obbligo del collocamento nel solo caso di nuove assunzioni di centralinisti, si chiariva ora come per nuove assunzioni di centralinisti dovessero considerarsi anche i trasferimenti dei lavoratori, precedentemente in servizio con diversa qualifica o mansione, che, per un motivo qualsiasi, venissero adibiti all'impianto telefonico avente funzioni di smistamento e di collegamento di cui i datori di lavoro erano dotati (art. 3). Il trasferimento, quindi, veniva considerato come tentativo di dissimulazione, in fraudem legis, di un'occasione di lavoro; la presenza, effettiva, di quest'ultima imponeva di far luogo ad un'assunzione e rendeva, così, attuale l'obbligo del datore di lavoro privato .
La legge del 1957 n. 594 indicava i soggetti beneficiari con l'espressione minorati della vista (dando luogo a non indifferenti dubbi interpretativi), la legge del 1960 n. 778 piu' chiaramente parlava dei soli privi della vista. La legge n. 155/1965 formulò, in proposito, una chiara definizione onde fugare ogni residuo equivoco (art. 2).
Con legge 21 Luglio 1961 n. 686 venne istituito un procedimento di collocamento obbligatorio in favore dei massaggiatori e massofisioterapisti ciechi.
L'obbligo era a carico (art. 1) degli ospedali e istituti di cura di certe dimensioni, dipendenti dalla p.a. o da privati e consisteva nell'introdurre nel personale o negli organici almeno un posto di massaggiatore o massofisioterapista, ove non fosse esistito, ed a conferire tale posto ad un massaggiatore o massofisioterapista cieco diplomato. Qualora le case di cura e gli stabilimenti termali avessero già avuto alle proprie dipendenze uno o piu' massaggiatori o massofisioterapisti diplomati, l'obbligo sarebbe sorto, nel caso di pubblico impiego, al momento della nuova assunzione disposta dopo l'entrata in vigore della legge, e nel caso di rapporto di lavoro privato, nel momento in cui, sempre successivamente all'entrata in vigore della legge, il posto così occupato fosse rimasto scoperto (art. 2).
Gli interessati alla tutela del collocamento coattivo dovevano avere conseguito l'abilitazione presso scuole riconosciute (art. 8) ed ottenere l'iscrizione in un Albo professionale nazionale, tenuto presso il Ministero del lavoro.
Sordomuti
La legislazione sociale a favore dei sordomuti così come quella, già vista, a tutela dei ciechi rientrava nelle ipotesi di tutela dei minorati previste dall'art. 38 della Costituzione.
La legge del 13 Marzo 1958 n. 308, tuttora in vigore e concernente disposizioni per l'assunzione obbligatoria dei sordomuti, è però viziata da una redazione contraddittoria e lacunosa, in poche parole scadente.
Probabilmente, fu la coincidenza fra il periodo della sua discussione in Parlamento e la fine della Legislatura a causare una inopportuna fretta per ottenerne l'approvazione, nonché, all'ultimo momento, l'infelice decisione di inserire un emendamento, del tutto improvvisato, proprio col quale si estendeva l'obbligo di collocamento ai privati datori di lavoro (in un contesto normativo, si badi, concepito in relazione alle sole pubbliche Amministrazioni).
Parte della dottrina e della giurisprudenza di merito giunse perfino a considerare la legge inapplicabile ai privati datori di lavoro. Perché sebbene la legge sembrasse rivolgersi anche ad essi, questa, in realtà, finiva per configurare delle fattispecie legali di impossibile realizzazione nell'ambito dei privati .
La normativa sui sordomuti è, insieme a quella sui privi della vista, l'unica a richiedere ai fini del collocamento coattivo il possesso da parte dell'interessato di una specifica abilitazione professionale: i sordomuti che possono aspirare al collocamento obbligatorio sono quelli che hanno conseguito un diploma professionale specifico o quelli che, secondo il giudizio del medico fiscale delle Amministrazioni interessate siano risultati idonei alle specifiche mansioni cui devono essere assegnati (art.6).
Invalidi civili
Con la legge n.1539 del 1962, concernente provvedimenti in favore dei mutilati ed invalidi civili, il legislatore volle apprestare un sistema di collocamento obbligatorio valevole per tutti quei casi di invalidità, fosse essa congenita o comunque acquisita, non coperti dalle particolari leggi che abbiamo finora esaminato. Con essa quindi si voleva dare la piu' completa attuazione agli artt. 4 e 38 della Costituzione.
Certi autori notarono come le intenzioni a base del provvedimento potessero essere frustate dall'eccessivamente ridotta percentuale di invalidità richiesta ai fini del godimento del diritto all'assunzione. Si rilevava come i benefici della legge in questione fossero invocabili anche da parte di quegli invalidi che, appartenenti a categorie considerate dalle specifiche leggi sul collocamento obbligatorio, fossero affetti da un'invalidità eccessivamente lieve ai fini di quest'ultime, ma sufficiente, invece, ai sensi della legge in esame. Sarebbe, così, successo che molti dei posti riservati dalla legge sarebbero stati, per esempio, coperti dai minimi invalidi del lavoro con capacità lavorativa ridotta di almeno di un terzo. Si rischiava, secondo questi autori, di vanificare l'estensione della tutela ai minorati non appartenenti a nessuna particolare categoria; estensione che, eppure, costituiva il fine precipuo della legge.
Probabile era altresì che molti dei posti riservati andassero a quella parte del personale, già impiegato, la cui diminuita capacità di lavoro di almeno un terzo, era la semplice conseguenza dell'età ormai avanzata. Questo se si accettava la posizione di autori i quali ritenevano che, pur nel silenzio della legge, andasse riconosciuto il principio, comune a tutte le disposizioni sulle assunzioni obbligatorie, della computabilità, ai fini del raggiungimento della percentuale prescritta, dei lavoratori già assunti ed aventi i requisiti richiesti per il trattamento privilegiato.
Altri autori ancora, notarono come, nei casi in cui era possibile la richiesta diretta del datore di lavoro, gli iscritti nei ruoli riportanti lievi invalidità sarebbero stati di gran lunga favoriti rispetto a quegli altri in condizioni piu' gravi e purtroppo maggiormente bisognosi dell'inserimento coattivo.
Nel caso di assunzione di nuovo personale, le imprese di certe dimensioni (piu' di 50 lavoratori in servizio esclusi gli apprendisti), erano tenute ad assumere un mutilato o invalido civile per ogni 10 lavoratori da assumere, fino a raggiungere la proporzione di un mutilato o invalido civile per ogni 50 dipendenti in servizio (o frazione di 50 superiore a 25).
Il ruolo relativo agli appartenenti a questa categoria (art. 6) era formato presso gli U.P.L.M.O., con la collaborazione di rappresentanti delle Associazioni nazionali mutilati ed invalidi civili.
La legge in esame istituì una procedura per il collocamento dei minorati che si inquadrava nello schema della L n. 264/1949, e che ricalcava quella stessa prevista dalla legge n. 1288 del 1965 sugli orfani e vedove di guerra ed orfani e vedove dei caduti per causa di servizio.
Tra le peculiarità della legge vi era quella della concessione ai datori di lavoro della facoltà di conteggiare, ai fini del raggiungimento della proporzione imposta dalla legge, quei mutilati ed invalidi civili che, durante il rapporto di lavoro coattivamente costituito, avessero superato il 55° anno di età o avessero conseguito un aumento della capacità lavorativa tale da renderla superiore al limite massimo per l'assunzione al lavoro.
Ai fini dell'escrizione negli elenchi, l'invalido doveva presentare tutti i documenti atti a dimostrare le attitudini professionali, sia generiche che specifiche, risultanti dai precedenti lavorativi o dagli attestati di conseguita idoneità rilasciati dalle istituzioni scolastiche o dai corsi direttamente promossi o autorizzati dal Ministero del lavoro. Tale cura all'idoneità professionale dell'invalido non era una rarità nelle leggi passate sul collocamento obbligatorio, ma, a parte i casi già esaminati dei privi della vista e dei sordomuti, essa rilevava solo per l'iscrizione negli elenchi e non influiva in maniera determinante nelle fasi successive del collocamento obbligatorio. Tale scelta del legislatore sarebbe stata confermata dalla legge generale del 2 Aprile 1968 n. 482.