La giurisprudenza di merito riconosce il diritto al risarcimento del danno esistenziale per il dipendente cui ingiustamente la P.A. ha negato i permessi retribuiti ex art. 33 comma 6° legge 104/1992 (Tribunale di Lecce - Sez. Lavoro - sentenza n. 6905 del 02.03.2004, in "D&G" n. 17 dell'01.05.2004)

Tribunale di Lecce - Sezione Lavoro Sent. n. 6905 del 02.03.2004

Tribunale di Lecce - Sezione Lavoro Sent. n. 6905 del 02.03.2004

Legge 104/92 - Permessi lavorativi – pubblico dipendente – circolare del Ministero del Tesoro che introduce un tetto massimo ai permessi orari di 18 ore complessive mensili – illegittimità e disapplicazione con riferimento a docente portatore di handicap avente diritto ai permessi ex art. 33 comma 6° L 104/1992.
(Sintesi non ufficiale)

Tribunale di Lecce – Sezione Lavoro – sentenza del 2 marzo 2004 n. 6905

Giudice Buffa
ricorrente T. (avv. Carrozzo) c. Ministero dell’Istruzione, Università e Ricerca (Avv. dello Stato)

Svolgimento del processo

Con ricorso del 28.1.03, la ricorrente esponeva di essere titolare dei benefici ex articolo 33 comma 6 legge 104/92, e quindi del diritto alla riduzione dell'orario di servizio settimanale a 13 ore di lezione, per la fruizione di un'ora di permesso al giorno per i cinque giorni di servizio. Lamentava che il dirigente della scuola media statale Quinto Ennio di Lecce aveva disposto la riduzione di orario solo fino a 15 ore settimanali di lezione. Tanto premesso, chiedeva accertarsi il suo diritto ad un orario di lavoro ridotto a 13 ore settimanali e condannarsi il resistente al risarcimento dei danni derivanti dal diniego della riduzione predetta, in misura pari al valore delle ore di servizio prestate in eccedenza dal 14.9.02, con vittoria di spese e competenze di lite.

Con memoria di costituzione, il Ministero convenuto contestava le avverse pretese, deducendo che la normativa richiamata a sostegno delle pretese attoree riguardava il rapporto di lavoro privato e non poteva applicarsi analogicamente anche ai rapporti di lavoro alle dipendenze della pubblica amministrazione, dovendo conciliarsi gli interessi dei dipendenti con le esigenze organizzative della Pa; aggiungeva che la circolare 94909/00 del ministero del Bilancio e programmazione economica aveva disciplinato i permessi per i portatori di handicap stabilendo che il dipendente nelle dette condizioni potese usufruire di due ore di permesso giornaliero retribuito fino ad un massimo di 18 ore mensili oppure di tre giorni di permesso mensili, e che la circolare aveva pure chiarito che il richiamo al limite delle 18 ore mensili importava che i permessi in discorso non potessero superare il 45% dell'orario complessivo normalmente previsto per il pubblico dipendente (che è di 40 ore settimanali); rilevava che il dirigente scolastico non aveva fatto altro che rapportare tale criterio di calcolo alla minor durata dell'orario di servizio del dipendente scolastico rispetto al pubblico dipendente in genere (18 ore rispetto alle 40, che rapportate al 45% divengono 8 ore mensili, ossia 2 ore settimanali di permesso). Contestava in ogni caso il calcolo effettuato dalla ricorrente, deducendo che la riduzione era stata effettuata solo sul servizio di insegnamento e non sul monte ore complessivo, comprendente anche l'attività di carattere collegiale ed individuale funzionale all’insegnamento per complessive 80 ore annue pari a l,53 ore alla settimana, e dunque con impegno medio del docente settimanalmente di 20 ore, sicché su tale base di calcolo dovrebbe operarsi comunque la riduzione di orario e dunque l'orario effettivo non avrebbe potuto mai essere inferiore alle 15 ore settimanali.

Motivi della decisione

Il ricorso è fondato e deve essere accolto.

Occorre premettere che l'orario di servizio della ricorrente è in astratto pari a 18 ore settimanali (articolo 41 Ccnl). Non rientra in tale orario il tempo che il personale docente dedica, essendovi obbligato contrattualmente, alle attività non di insegnamento ma funzionali allo stesso, ossia alle attività di programmazione, progettazione, ricerca, valutazione e documentazione necessarie per l'efficace svolgimento dei processi formativi o comunque accessori per legge alla docenza: tale attività prevede adempimenti individuali (preparazione delle lezioni e delle esercitazioni, correzione degli elaborati, rapporti individuali con le famiglie) e adempimenti di carattere collegiale (partecipazione alle riunioni del collegio dei docenti ai fini della programmazione, delle verifiche di inizio e fine anno e delle informazioni alle famiglie, partecipazioni ai consigli di classe, di interclasse e di intersezione ).

Gli articoli 40 ss. Ccnl operano infatti una netta distinzione tra le attività di mero insegnamento e le attività funzionali alla prestazione dello stesso: la prima si svolge, nelle scuole ed istituti di istruzione secondaria ed artistica, in 18 ore settimanali distribuite in non meno di cinque giornate settimanali; la seconda non è determinata nella sua precisa quotidiana durata, ma è stabilito solo un tetto massimo di 80 ore annuali.

Il docente portatore di handicap, del resto, è obbligato al pari degli altri ad effettuare tali attività, essendo necessaria la presenza dello stesso indipendentemente dall'orario settimanale di servizio.

Ciò posto, deve rilevarsi che la norma dell'articolo 33 legge 104/92, nel prevedere la riduzione di orario, fa espresso richiamo all’orario di servizio giornaliero, sicché non può che farsi riferimento all'orario predeterminato per ogni docente ed inerente il servizio di insegnamento (ossia alle 18 ore settimanali), dovendo escludersi che il richiamo sia pure effettuato a quelle attività funzionali all'insegnamento ed extradidattiche, che non hanno una durata predeterminata nel tempo, né una cadenza prestabilita, né soprattutto una cadenza o addirittura presenza quotidiana (ma solo un limite massimo annuale di durata, non sempre peraltro raggiunto).

L'articolo 33 comma 6 della legge 104/92 ha previsto che la persona handicappata maggiorenne in situazione di gravità può usufruire alternativamente dei permessi di cui al comma 2 e 3 dello stesso articolo e dunque, a sua scelta, dei permessi giornalieri retribuiti di due ore o di quelli retribuiti per tutta la giornata fino ad un massimo di tre giorni al mese.

Con circolare 80 del 24 marzo 1995, l'Inps ha richiamato tale diritto ed ha chiarito in linea generale la spettanza in capo al lavoratore della scelta tra la fruizione del permesso orario giornaliero e di quello relativo all'intera giornata nel limite massimo mensile. La circolare poi ha circoscritto la portata della norma di legge in via interpretativa, facendo applicazione analogica dell'articolo 10 legge 1204/71 (relativo al permesso orario giornaliero di allattamento), in ordine alla durata del permesso orario giornaliero, prevedendo che il permesso di due ora competa solo in caso di durata della prestazione lavorativa giornaliera per almeno sei ore, mentre in caso di durata minore il permesso ha durata di un'ora.

Analoga previsione ha dettato la circolare n. 59 del 30 aprile 1996 del ministero del Lavoro e della Previdenza sociale.

Premesso tale contesto normativo, la ricorrente non contesta la limitazione ad un'ora giornaliera dei permessi orari per il caso di durata della prestazione inferiore alle sei ore al giorno, ma anzi chiede proprio l'applicazione di tali principi - meno favorevoli di quanto letteralmente previsto dalla legge, ma ormai generalmente recepiti - al suo caso: lavorando cinque giorni alla settimana con orario inferiore quotidianamente alle 6 ore, chiede l'attribuzione di un'ora al giorno di permesso e dunque la riduzione da 18 a 13 dell'orario di servizio settimanale.

La circolare del ministero del Tesoro, che introduce il limite massimo delle 18 ore mensili per i permessi orari giornalieri, non può trovare applicazione, in quanto in contrasto con le previsioni della legge, sicché la stessa va disapplicata: infatti, altro è il permesso di giornata intera (che ha limite in tre giornate mensili) altro è quello orario (che ha solo limite in due ore).
Infatti, al di fuori di questo limite giornaliero delle due ore, il permesso orario giornaliero non ha limite mensile nella legge; né un limite è desumibile dalla semplice fruibilità alternativa delle due tipologie di permesso (cfr. ord. Trib. Lecce 18.4.03).

In tale contesto, l'introduzione con circolare di un limite di 18 ore mensili per i permessi orari giornalieri, effettuata rapportando il limite mensile delle tre giornate alle ore di lavoro quotidiane, e dunque moltiplicando 3 - i giorni - per 6 - le ore di lavoro al giorno - appare immotivatamente peggiorativa della
condizione del dipendente in condizione di handicap grave, in contrasto con le previsioni di legge che non contengono analogo limite per i permessi orari giornalieri, ed in sintesi inidonea ad incidere - unilateralmente, come pretenderebbe l'amministrazione- sulle posizioni giuridiche soggettive previste dalla legge in favore del prestatore di lavoro.

Va poi rilevato che l'operazione aritmetica operata dal ministero del Bilancio - ministero peraltro diverso da quello competente per il lavoro scolastico - non si attaglia affatto al lavoro degli insegnanti, che non ha durata giornaliera di 6 ore (quasi sempre esclusa anzi, per la durata di 18 ore del servizio e per il principio recepito dal contratto collettivo della necessaria ripartizione dello stesso in 5 giorni alla settimana): né è prova il calcolo operato dalla resistente (ma a ben vedere anche quello proposto, in via subordinata, dal ricorrente, in applicazione della circolare ministeriale in discorso), che non "quadra" affatto con la riduzione di ore operata dal dirigente scolastico.

La resistente pretenderebbe di affermare l'inapplicabilità della circolare Inps richiamata dalla ricorrente al caso di specie, trattandosi di rapporto di lavoro pubblico e non privato: la questione risulta, oltre che infondata, comunque irrilevante nel caso di specie.
Infondata, in quanto la circolare del ministero della Funzione pubblica n. 14 del 16 novembre 2000, nel dettare le disposizioni integrative della legge 53/2000 (recante disposizioni di sostegno alla maternità e paternità e di assistenza ai portatori di handicap), ha espressamente previsto che, per le fattispecie non contemplate dalla circolare e non incompatibili con la disciplina del settore pubblico, si rinvia a quanto espresso, con riferimento al settore privato, dall 'Inps con proprie circolari, "in quanto frutto di un indirizzo concordato con le amministrazioni competenti".
Irrilevante, in quanto il diritto azionato dalla ricorrente deriva direttamente dalla legge ed è solo confermato dalla circolare predetta, laddove invece, se la circolare in via interpretativa cerca di limitare la durata dei permessi giornalieri (ad un'ora) nel caso di prestazione inferiore alle sei ore giornaliere, la ricorrente chiede l'applicazione nei propri confronti di tale disposizione meno favorevole di quella legale.

Deve dunque essere dichiarato il diritto della ricorrente per il periodo di cui al ricorso ad un orario di insegnamento nella misura ridotta di 13 ore settimanali.

La ricorrente ha chiesto altresì la condanna dell'amministrazione al risarcimento del danno derivante dal mancato riconoscimento nella misura di legge dei permessi orari giornalieri, darmi da liquidarsi in misura corrispondente al valore economico delle ore indebitamente lavorate.

Si tratta evidentemente, benché la ricorrente non qualifichi tale danno, di un danno di carattere non patrimoniale (la ricorrente ha lavorato di più per effetto della riduzione dei permessi operata dal dirigente scolastico), in quanto non connesso ad una diminuzione di patrimonio (essendo i permessi retribuiti, la ricorrente avrebbe guadagnato le stesse somme anche in caso di riconoscimento dei permessi nella misura richiesta), bensì correlato alla penosità del lavoro espletato in un tempo non dovuto ed in ordine alla quale la legge prevede il diritto a permesso (in funzione anche di riposo) orario giornaliero.

Non si tratta, nel caso, peraltro, di danno biologico (non risultando che dalla riduzione illegittima dei permessi sia derivata una compromissione della integrità psico-fisica della ricorrente), né di danno morale (la ricorrente non chiede il risarcimento del pretium doloris derivatole dalla condotta del dirigente scolastico); si tratta propriamente di quella categoria di danno non patrimoniale che la miglior dottrina e giurisprudenza hanno qualificato come esistenziale, inerendo l'esistenza della persona. In particolare, come ben si è detto, il danno esistenziale non ha nulla a che vedere con le lacrime, le sofferenze, i dolori, i patemi d'animo: il danno morale è essenzialmente un sentire, il danno esistenziale è piuttosto un non fare, cioè un non poter più fare, un dover agire altrimenti, un relazionarsi diversamente. Il danno non patrimoniale consiste nella lesione di un bene inidoneo a costituire oggetto di scambio e di quantificazione pecuniaria secondo le leggi di mercato ma che costituisce pur sempre un interesse direttamente protetto dall'ordinamento ed in quanto tale può affermarsi la sua natura dì interesse rivestito di valore economico, alla stregua degli altri interessi immateriali tutelati; le conseguenze sono da considerarsi nella loro valenza economica anche se l'interesse leso, costituente il danno evento, è di natura immateriale e non patrimoniale, spostandosi il baricentro della tutela risarcitoria dal contenuto del danno a quello della ingiustizia della lesione. Ora, nel nostro ordinamento è ormai riconosciuta in via giurisprudenziale dottrinale la possibilità di risarcimento del danno non patrimoniale anche al di fuori del solo danno morale contemplato dall'articolo 2059 Cc e da altre disposizioni speciali di legge.

Oggi, infatti, la giurisprudenza, sia costituzionale che di legittimità (Corte costituzionale 233/03; Cassazione civile, sezione III 8828/03), si è orientata verso una nozione ampia, costituzionalmente orientata, del danno non patrimoniale, esorbitante non solo da una visione penalistica (i casi di legge ormai riguardano in via maggioritaria fattispecie extrapenali), ma anche da una impostazione limitativa del risarcimento ai casi previsti dalla legge: nel perdurante vigore dell' articolo 2059 Cc, si è ritenuto che, allorquando vengano in considerazione valori personali di rilievo costituzionale, deve escludersi che il risarcimento del danno non patrimoniale, ai sensi dell'articolo 2059 Cc, sia soggetto al limite derivante dalla riserva di legge (tanto più se correlata all'articolo 185 Cp), e si è affermato che ciò che rileva, ai fini dell' ammissione a risarcimento, in riferimento all'articolo 2059 Cc, è l'ingiusta lesione di un interesse alla persona, dal quale conseguano pregiudizi non suscettibili di valutazione economica, in quanto una lettura della norma costituzionalmente orientata impone di ritenere inoperante il detto limite, se la lesione ha riguardato valori della persona costituzionalmente garantiti.

Risulta ormai anzi recepita la categoria del danno esistenziale che comprende qualsiasi danno non patrimoniale che l'individuo subisce alle attività realizzatrici della propria persona (Cass. 7713/00). Con riferimento al caso di specie, è indubbio che la qualità della vita della ricorrente è peggiorata in ragione della riduzione dei permessi orari giornalieri, sicché la stessa ha dovuto lavorare - illegittimamente ed ingiustamente - di più, non potendo dedicare il proprio tempo al riposo (lei che, quale portatrice di handicap in condizione di gravità, ne aveva probabilmente bisogno più di un normale lavoratore) ed allo svolgimento delle altre attività cui ha dovuto rinunciare: si ravvisa in altri termini nel caso quella rinuncia alla quotidianità che è alla base del danno esistenziale. Si tratta d'altra parte di una lesione di situazioni soggettive inerenti la persona e dunque di interessi costituzionalmente protetti (arg. ex articolo 2, 36 comma 3 e 38 Costituzione).

La lesione di tali interessi, dunque, espone il datore di lavoro al risarcimento del danno in quanto illegittimamente arrecato.

Va peraltro ricordato che, nel settore del lavoro pubblico, il risarcimento del danno esistenziale è stato già riconosciuto in relazione alla fattispecie, certo diversa ma funzionalmente in parte analoga, relativa alla mancata fruizione di riposo settimanale, con conseguente danno, non patrimoniale, da usura psicofisica (Cassazione 9009/01; Tar Campania, Napoli, sezione III, sentenza 14046/03).

La condotta dell' amministrazione ha causato un danno ingiusto, in quanto ha leso i diritti riconosciuti dalla legge in favore del lavoratore maggiorenne handicappato in condizioni di gravità. Quanto alla liquidazione del danno esistenziale, se è vero che esso ha carattere non patrimoniale sicché la sua .liquidazione potrebbe assai meglio basarsi su parametri diversi dalla retribuzione, in difetto della allegazione di tali diversi parametri, non può che farsi riferimento al valore economico delle ore di permesso illegittimamente negate, commisurando ad esso il risarcimento dovuto dal lavoratore, in difetto della prova di danni di tipo o entità diversa.

Per quanto detto, deve essere condannata l'amministrazione resistente al risarcimento in favore della ricorrente dei danni, che si liquidano in misura pari al valore delle ore di servizio prestate in eccedenza rispetto alle ore sopra dette. Le spese e competenze di causa seguono la soccombenza.

P.Q.M.

dichiara il diritto della ricorrente per il periodo di cui al ricorso ad un orario di insegnamento nella misura ridotta di 13 ore settimanali; condanna il resistente al risarcimento dei danni che si liquidano in misura pari al valore delle ore di servizio prestate in eccedenza rispetto alle ore sopra dette; condanna il resistente al pagamento delle spese di lite, che si liquidano in 770 euro, di cui 70 per spese, 500 per onorari e 200 per diritti.