Le tre sentenze del marzo 2014 con cui la Cassazione ha ribaltato la prassi dei Tribunali, inibendo al giudice il potere di verifica sui requisiti socio economici.

Gli articoli dell'Avv. Airollo e del Magistrato Morabito affrontano la portata delle tre sentenze del mese di marzo 2014 della Corte di Cassazione, con cui si delimitano gli esatti confini dell'accertamento e del potere decisorio nell'Atp previdenziale di cui all'art. 445-bis c.p.c.: Cass. n. 6010 del 14 marzo 2014, n. 6084 e 6085 del 17 marzo 2014.

La portata delle predette tre sentenze è sintentizzata nei seguenti termini dall'Avv. Francesco Cervo (www.avvocatocervo.com), in un post nel suo sito del 15.5.2014:

ACCERTAMENTO TECNICO PREVENTIVO EX ART. 445 BIS C.P.C.: INSUSSISTENZA DEL POTERE IN CAPO AL GIUDICE DI VERIFICARE I REQUISITI “NON SANITARI”
16 maggio 2014 -  Francesco Cervo

Con le recenti sentenze del 14 marzo 2014 n. 6010 e 17 marzo 2014 nn. 6084 e 6085, la Suprema Corte di Cassazione chiarisce che in sede di accertamento tecnico preventivo obbligatorio, ex art. 445 bis c.p.c., al giudice è inibito il potere di verificare i requisiti dell’azione.

Infatti, a dispregio di una prassi consolidata dei Tribunali territoriali, il giudice di legittimità evidenzia che l’art. 445-bis, prevede un giudizio che concerne esclusivamente un accertamento sanitario, regolato da un rito speciale, nel quale il ricorrente deve indicare esclusivamente la prestazione previdenziale o assistenziale richiesta e le sue condizioni di salute.

Di conseguenza il giudice adito deve esclusivamente conferire l’incarico ad un consulente medico e fissare i termini della eventuale contestazione. Infatti, il procedimento sommario si conclude con due modalità: A) con un decreto di omologa, in assenza di contestazioni; B) con sentenza (sempre e solo sui requisiti sanitari) in caso di contestazioni.

Nel caso in cui l’Accertamento Tecnico Preventivo si conclude in senso favorevole al ricorrente, l’ente è obbligato al pagamento della prestazione nel termine di 120 giorni e, solo laddove non adempie, si apre un altro giudizio a cognizione piena, il quale, tuttavia, è proteso ad accertare la sussistenza dei requisiti non sanitari (ad esempio: l’esistenza della domanda amministrativa, l’esperimento dei ricorsi amministrativi, il rispetto del termine decadenziale ex art. 42, 3° comma D.L. 269/2003, la litispendenza, l’esistenza di precedenti domande o giudizi non ancora definiti, l’esistenza di un precedente giudicato, l’incompetenza territoriale, ecc.).

Infatti, la giurisprudenza di legittimità ha evidenziato, testualmente, che: “il giudice adito con istanza per ATP null’altro è legittimato a fare se non a procedere alla consulenza e gli è inibito di operare verifiche di sorta sugli altri requisiti, giacché il legislatore pone l’ATP come fase preliminare cui passare “necessariamente”, quali che siano gli ostacoli, che nelle singole fattispecie, precluderebbero il diritto alla prestazione richiesta”.

Le preclusioni nelle quali incorre il giudice del procedimento sommario comportano che il provvedimento che ne deriva non è definitivo, in quanto non statuisce sulla spettanza della prestazione richiesta e sul conseguente obbligo dell’Inps di erogarla (c.d. requisiti non sanitari).

Di conseguenza, appare evidente che il provvedimento emesso a seguito del procedimento di accertamento tecnico preventivo non può essere impugnato, in quanto è proteso ad accertare (o per meglio dire asseverare) esclusivamente la sussistenza dei requisiti sanitari.

A riprova di tanto, la Suprema Corte ha avuto modo di chiarire che laddove vi fosse una discrasia tra l’elaborato del Consulente Tecnico d’Ufficio ed il provvedimento di omologa, ai fini dell’accertamento del requisito sanitario deve farsi riferimento sono solo ed esclusivamente alle conclusioni del CTU, nella misura in cui: “sono da considerarsi del tutto ininfluenti i rilevi (eventualmente errati) del giudice contenuti nel decreto di omologa, perché in detto provvedimento il giudice medesimo deve necessariamente limitarsi ad asseverarsi le conclusioni del CTU, e sono queste, e solo queste, che concludono la fase preliminare ove non siano sollevate contestazioni”.

Infine, con riferimento all’inammissibilità dell’impugnazione avverso il decreto di omologa, ovvero alla inappellabilità delle sentenze che definiscono il giudizio di ATP in caso di contestazione, la Suprema Corte ha precisato, altresì, che l’art. 445 bis c.p.c. è conforme ai principi costituzionali, nella misura in cui nel nostro ordinamento vige il principio della discrezionalità ed insidacabilità delle scelte operate dal legislatore, nel limite della loro non manifesta irragionevolezza, e la garanzia del doppio grado di giudizio non gode, di per sé, di copertura costituzionale. (cfr. Ordinanza Corte Costituzionale nn. 190/2013 e 10/2013).

Marco Aquilani, 07.06.2015

Le tre sentenze del marzo 2014 sull'oggetto dell'Atp previdenziale

Le tre sentenze del marzo 2014 sull'oggetto dell'Atp previdenziale

l'Atp alla luce delle sentenze della Cassazione n. 6010 del 14 marzo 2014 e nn. 6084 e 6085 del 17 marzo 2014.
Il commento dell'Avv. Gaetano Irollo su Diritto.it. e del magistrato Patrizia Morabito su Personaedanno.it

Articolo dell'Avv. Gaetano Irollo su www.diritto.it

Procedimento per Accertamento Tecnico Preventivo: l’inibizione al giudice del potere di verifica sui requisiti dell’azione ribalta la prassi consolidata esistente nei Tribunali

Lo stabilisce la Corte di Cassazione con tre sentenze: la n. 6010 del 14 marzo 2014 e nn. 6084 e 6085 del 17 marzo 2014. In tali provvedimenti, viene ampiamente analizzato il procedimento dell’accertamento tecnico preventivo (ATP) in materia previdenziale, ex art. 44-bis c.p.c., introdotto con D.L. 98/2011, convertito nella L. 111/2011.
L’Istituto previdenziale proponeva ricorso straordinario ex art. 111 Costituzione avverso il decreto di omologa emesso al termine della fase dell’ATP affermando che il giudice deve provvedere alla verifica della sussistenza dei presupposti dell’azione, la carenza dei quali precluderebbe alla parte privata di beneficiare della prestazione; ad esempio, il giudice deve verificare l’esistenza della domanda amministrativa, l’esperimento dei ricorsi amministrativi, il rispetto del termine decadenziale ex art. 42, 3° comma D.L. 269/2003, la litispendenza, l’esistenza di precedenti domande o giudizi non ancora definiti, l’esistenza di un precedente giudicato, l’incompetenza territoriale, ecc.
La mancata verifica di tali presupposti renderebbe inutile il ricorso all’ATP e la nomina di consulenza medico legale costituirebbe solo dispendio di attività e spese; inoltre, l’Istituto, in uno dei provvedimenti impugnati, lamentava che erroneamente il giudice avesse convalidato l’omologa indicando nel decreto “persona invalida al 100% ma senza necessità di assistenza continua” laddove oggetto dell’accertamento era solo ed esclusivamente la riduzione della capacità lavorativa ex L. 222/1984.
L’Istituto, poi, lamentava la condanna alle spese della consulenza tecnica di ufficio nonostante il rigetto sostanziale dell’ATP e la condanna del ricorrente al pagamento delle spese di giudizio, ad eccezione, per l’appunto, delle spese di consulenza poste solo a carico dell’Istituto.
Con le sentenze sopra citate, la Cassazione ha dichiarato l’inammissibilità del ricorso ad eccezione dei motivi riguardanti le spese.
Difatti, a detta degli Ermellini, mentre nella legislazione previgente tutti i requisiti andavano verificati in un unico giudizio, il legislatore, con l’introduzione dell’art. 445-bis, ha inteso scindere il giudizio in due diverse fasi: uno concernente l’accertamento sanitario, regolato da un rito speciale (a contraddittorio posticipato ed eventuale) e l’altro (non necessariamente giudiziale) di concessione della prestazione in cui va verificata l’esistenza dei requisiti non sanitari.

Nella prima fase, il ricorrente deve indicare esclusivamente la prestazione previdenziale o assistenziale richiesta e le sue condizioni di salute; a questo punto il giudice può solo conferire incarico ad un consulente medico e fissare i termini della eventuale contestazione; il procedimento, poi, può concludersi con il decreto di omologa, in assenza di contestazioni, o con sentenza; in quest’ultima ipotesi, il giudizio è limitato agli elementi di contestazione della parte dissenziente ed alla sola discussione della invalidità (fase sanitaria).
Il secondo giudizio, eventuale e necessario solo qualora l’Inps non provveda al pagamento della prestazione nei 120 giorni, invece, è a cognizione piena ancorché limitato (stante l’intangibilità del requisito sanitario) con la verifica di tutte i requisiti diversi dall’invalidità.
Pertanto, la Cassazione afferma il principio secondo cui “il giudice adito con istanza per ATP null’altro è legittimato a fare se non a procedere alla consulenza e gli è inibito di operare verifiche di sorta sugli altri requisiti, giacché il legislatore pone l’ATP come fase preliminare cui passare “necessariamente”, quali che siano gli ostacoli, che nelle singole fattispecie, precluderebbero il diritto alla prestazione richiesta”.
Quindi, il provvedimento che scaturisce dal procedimento, ovvero il decreto di omologa in assenza di contestazione delle parti, non incide sulle situazioni giuridiche soggettive perché non conferisce né nega alcun diritto, dal momento che non statuisce sulla spettanza della prestazione richiesta e sul conseguente obbligo dell’Inps di erogarla; non essendo, quindi un provvedimento definitivo ed in grado di incidere con efficacia di giudicato il decreto di omologa deve ritenersi non impugnabile.
A conferma della non impugnabilità del decreto di omologa e dei limitati poteri del Giudice nel procedimento per ATP, addirittura la Suprema Corte ritiene che la discrasia tra l’elaborato del CTU ed il provvedimento  di omologa, che non assevera il parere ma lo modifica (come era avvenuto nel caso in esame) debba considerarsi irrilevante in quanto l’unico dato  cui fare riferimento sono solo ed esclusivamente le conclusioni del ctu.

Difatti, “sono da considerarsi del tutto ininfluenti i rilevi (eventualmente errati) del giudice contenuti nel decreto di omologa, perché in detto provvedimento il giudice medesimo deve necessariamente limitarsi ad asseverarsi le conclusioni del CTU, e sono queste, e solo queste, che concludono la fase preliminare ove non siano sollevate contestazioni”.
La Corte si spinge anche oltre: nell’analizzare in toto l’art. 445-bis, riguardo la non ricorribilità ex art. 111 Cost. del decreto di omologa nonché l’inappellabilità delle sentenze che definiscono il giudizio in caso di contestazione, ritiene la norma conforme alla Costituzione richiamando dei recenti provvedimenti dei giudici di legittimità (ordinanza Corte Costituzionale n. 190/2013 e 10/2013 in merito all’opposizione alla stima delle indennità per espropriazione per pubblica utilità) secondo cui, non solo nel nostro ordinamento vige il principio della discrezionalità ed insidacabilità delle scelte operate dal legislatore, nel limite della loro non manifesta irragionevolezza, ma ribadisce che la garanzia del doppio grado di giudizio non gode, di per sé, di copertura costituzionale.
Viceversa, sul secondo motivo, ovvero quello relativo alle spese processuali, la Corte ha ritenuto l’ammissibilità del ricorso trattandosi di provvedimento definitivo, di carattere decisorio, che incide sui diritti patrimoniali delle parti con efficacia di giudicato ed non soggetto ad impugnazione, richiamando alcuni precedenti analoghi  in cui era stato ammesso il rimedio straordinario.
In definitiva, la Suprema Corte, analizzando in toto l’art. 445-bis, ha chiarito alcuni punti in contrasto anche con la prassi consolidata dei Tribunali territoriali; ad esempio, in protocolli tra avvocati e magistrati dei Tribunali di Bologna o Reggio Calabria, si dava atto che il Giudice doveva verificare le condizioni dell’azione (decadenza, esistenza di domanda amministrativa, pendenza di giudizio, ecc.) che, viceversa, la sentenza della Suprema Corte elimina totalmente; ancora, era ritenuta diffusa e prevalente l’opinione che nel giudizio di opposizione alle risultanze peritali la parte poteva anche chiedere la condanna al pagamento della prestazione, circostanza tassativamente esclusa nelle sentenza sopra commentate.
Bisogna vedere ora la reazione dei Tribunali territoriali in relazione anche ad altre questioni relative all’art. 445-bis su cui il dibattito resta aperto anche a seguito delle sentenze sopra commentate come, ad esempio, il potere di rinnovo delle operazioni peritali concesso al giudice ex art. 196 c.p.c., o ancora il provvedimento da adottare a seguito del mancato esperimento dell’accertamento tecnico preventivo (nella quasi totalità dei tribunaleviene emessa una sentenza di improcedibilità).


Articolo della Dott.ssa Patrizia Morabito, Giudice del Lavoro a Reggio Calabria, su www.personaedanno.it

14/04/2014

"L'ART. 445 BIS CPC: NORMA SBAGLIATA O FRAINTESA?" - Patrizia MORABITO

Il legislatore, nel dichiarato (e forse disperato) tentativo di porre rimedio alla lentezza dei processi in materia di assistenza e previdenza, e di deflazionare il relativo contenzioso (così l’art 38 DL n 98/2011, conv. in L. n 111/2011) causato anche dall’eccessiva – e patologica- concentrazione di essi in alcune aree del territorio nazionale, ha provato a dare un “colpo d’ala” , ridisegnando con l’art 445 bis cpc il processo previdenziale. L’idea scommetteva su alcuni dati di esperienza: le controversie previdenziali nascevano quasi sempre dal forte conflitto delle parti sull’accertamento sanitario, risolutivo del giudizio, mentre numericamente assai più esiguo era il contenzioso che nasceva dall’incertezza sugli altri requisiti, cd. “socioeconomici”.

Iinoltre innumerevoli processi affollavano le Sezioni Lavoro delle Corti di Appello – anche qui accumulando carichi e ritardi – : questo secondo aspetto critico era favorito dal dettato dell’art 149 disp. att. cpc, a mente del quale gli aggravamenti successivi entravano a pieno titolo nel processo in corso. Ed incoraggiavano decisamente l’appello: l’invalidità che non si era consolidata in primo grado si sarebbe consolidata in seguito, ed i tempi (spesso lunghi) necessari per giungere alla sentenza di secondo grado giocavano a favore dell’invalido appellante. Quindi – ha forse ingenuamente pensato il legislatore del 2011- sarebbe bastato intervenire con decisione su questi due aspetti critici, consegnando ai giudici uno strumento potenzialmente capace – se correttamente gestito- di evitare la sentenza, noto “collo di bottiglia” ed ostacolo ad ogni velocizzazione del processo anche in materia previdenziale.

Ha così stabilito di “anticipare” obbligatoriamente (a pena di improcedibilità) l’accertamento sanitario nelle controversie ex art 442 e ss cpc , garantendone l’espletamento sotto il controllo del giudice e con un CTU dallo stesso nominato, per favorire la risoluzione della conflittualità, e offrire alle parti la possibilità di “omologare” l’esito dell’accertamento. L’intento era di evitare l’avvio di un buon numero di ordinari processi di merito, sperando nella capacità dell’indagine peritale di chiarire la questione “centrale”, l’esistenza dello stato d’invalidità ed il suo consolidamento.

In ogni caso, se non si fosse pervenuti all’omologa, chi avesse ritenuto necessario il processo di merito avrebbe dovuto espressamente contestare gli esiti dell’accertamento sanitario già svolto, a pena di inammissibilità : la regola aveva l’evidente intento di richiamare l’attenzione, obbligare ad una seria valutazione dell’effettiva insuperabile criticità dell’ATP già espletato, insomma evitare il ricorso al processo di merito per mero ed acritico automatismo.

La situazione in cui l’INPS – e non il privato - avesse avuto interesse ad avviare il processo di merito (per contestare l’ATP ed impedire l’omologa) non trasformava l’azione, che sarebbe rimasta l’azione ordinaria di tutela dei diritti di cui al primo comma dell’art 445 bis cpc , seppur a parti solo formalmente “invertite”, vedendo nell’apparente ricorrente il resistente “sostanziale”. Ma sarebbe bastato raccogliere l’elaborazione della giurisprudenza (per altri casi nei quali le parti processuali sono solo formalmente invertite) per lasciare in capo al privato – ricorrente in senso sostanziale, ancorché chiamato nel giudizio avviato dall’INPS - tutti gli oneri di allegazione e prova, nonché l’interesse ad agire propri dell’attore nel processo previdenziale. La regolazione delle spese avrebbe evitato “abusi” degli strumenti posti a disposizione delle parti, soggetti a condizioni di procedibilità ed ammissibilità per ridurre al minimo le sentenze e favorire le omologhe.

Garantita così l’effettività della tutela giurisdizionale dei diritti, il legislatore, ritenendo – del tutto ragionevolmente - che la materia, già più volte definita “a basso tasso di giuridicità” si prestasse ad un contenimento delle possibilità di ricorso al giudice, ha sancito l’ inappellabilità della decisione di merito. Del resto, così aveva già fatto per i processi di opposizione alla stima (affidati in un unico grado alle Corti di Appello e con rito celere ed agile), forte dell’ormai consolidata certezza che il doppio grado di giudizio non trovasse garanzia costituzionale.

La novità era coraggiosa, di forte impatto, capace di dare una svolta, e non solo al contenzioso previdenziale/assistenziale, ma di riflesso al contenzioso “lavoristico” nel suo complesso. Infatti, se i giudici di primo grado fossero stati sollevati dalla redazione di numerose sentenze  previdenziali/assistenziali (costituenti, in buona parte degli uffici giudiziari, oltre il 50-60% delle definizioni totali), avrebbero potuto dedicarsi al contenzioso di altra natura, definire molto più rapidamente le altre cause, quelle in materia di lavoro, di pubblico impiego, ed il complesso contenzioso cd “contributivo”. E le Corti di Appello – liberate dal contenzioso “sanitario” in attesa di aggravamento - avrebbero visto finalmente alleggeriti i loro carichi, ed avrebbero potuto accelerare la definizione delle altre controversie.

Ma il legislatore non aveva fatto i conti con le forti resistenze che - forse del tutto inconsapevolmente - scatenano le novità, foriere di interpretazioni talora imprevedibili. L’art. 445 bis cpc, norma per vero tecnicamente tutt’altro che perfetta e non priva di criticità, fu accolta da subito con grandi contestazioni e proteste dalla giurisprudenza di merito, che la tacciò anche di privare il giudice del suo potere decisionale. Il timore scatenato dalla riforma non mancò di produrre i suoi frutti, suggerendo interpretazioni capaci nei fatti di “arginare” la portata innovativa del nuovo sistema, e di sopprimerne del tutto la potenzialità acceleratoria, creando un affastellarsi di processi, trasformando una norma a vocazione deflattiva in una disposizione foriera della moltiplicazione delle cause, ben lontana dall’ assicurare la tutela di diritti in tempi ragionevoli.

Insomma, un netto peggioramento della situazione preesistente, con buona pace degli intendimenti espressi dal legislatore. Come sia stato possibile realizzare questo risultato è presto detto: parte della giurisprudenza di merito, e poi anche quella di legittimità (cfr Cass. Sez. Lav. Sent. N. 6010, 6084, 6085 tutte del 2014) hanno sdegnosamente scansato – pur senza neppure esaminarla né confutarla - la tesi secondo cui l’ATP fosse una mera “anticipazione” di un solo eventuale processo di merito, finalizzato alla realizzazione del diritto, la cui sentenza sarebbe stata inappellabile.

Hanno invece sposato senza incertezze la tesi dell’accertamento in fasi processuali successive e di fatto autonome, addirittura scardinando il legame fra l’ATP ed il processo di merito, di cui lo stesso ATP era dichiarato “condizione di procedibilità” (così ribadendo lo strettissimo collegamento funzionale, da sé idoneo ad escludere sostenibilità alle contrarie argomentazioni)

È stato così teorizzato che l’ATP non dovesse rispondere all’interesse ad agire rispetto al diritto azionabile, ed al processo di merito concretamente esperibile, e che invece potesse essere chiesto da chiunque, anche da chi non avesse alcuna prospettiva di poter realizzare un diritto; anche da chi, per ipotesi, non avesse mai proposto domanda amministrativa, non avesse neppure requisiti sociosanitari, di età , e così via.

Non solo: a ciò si è aggiunta l’ulteriore affermata scissione della fase dell’accertamento da quella della condanna, poiché si è sostenuto – anche qui senza incertezze - che il processo di merito instaurato dopo l’ATP avrebbe potuto pronunziare solo sul requisito sanitario. E poiché la sentenza di mero accertamento non avrebbe garantito nessuna realizzazione coattiva del diritto, al cospetto di un debitore riottoso ed inadempiente, per giungere alla condanna esecutiva ... sarebbe stato necessario azionare un terzo processo!

Non ha fatto breccia nell’irresistibile avanzata dei fautori delle tre fasi neppure l’assenza nel testo di legge di evidenti ed univoci appigli testuali, che sarebbero stati assolutamente necessari per giustificare così rilevanti deroghe a principi fondamentali e consolidati. Non sono state ascoltate le voci critiche che pur si sono levate, notando che nessuna legge - e meno che mai l’art 445 bis cpc - avessero ancora inteso abrogare l’art. 100 del cpc; che non era stata neppure abrogata la regola che imponeva la domanda amministrativa previdenziale per accedere al processo; che l’art. 445 bis cpc non dichiarava che i processi di merito dovessero diventare due; né che fosse ammissibile la domanda di accertamento di meri fatti (quali il requisito sanitario).

Non è stato neppure considerato il danno economico che sarebbe scaturito all’ente previdenziale dal business innescato dal ricorso all’ATP di tutti coloro che – magari invalidi solo per l’avanzata età, pur non avendo alcuna ragione per pretendere una prestazione, non avendo alcun diritto da vantare né avendo presentato alcuna domanda amministrativa -, avrebbero potuto chiedere un accertamento di invalidità tanto prevedibilmente positivo, quanto processualmente inutile, fruttuoso solo per l’avvocato ed il CTU, per il pagamento dei compensi cui sarebbe stato condannato - secondo il principio della soccombenza – l’ente previdenziale.

Così come non è stato in alcun modo esaminato l’altrettanto grave – ed anche questo ingiustificato – danno che avrebbero subito gli uffici giudiziari , già in forte sofferenza per carenze di organici e ritardi nella trattazione di processi - che avrebbero dovuto fronteggiare una domanda di ATP potenzialmente elevata e non sostenuta da alcun interesse ad agire né da alcuna prospettiva di utilizzabilità processuale degli accertamenti sanitari, comunque onerosi e dispendiosi, e delle innumerevoli storture che siffatto meccanismo avrebbe determinato.

Ciò nonostante, ed in assenza di univoci dati testuali che giustificassero tale ricostruzione , si è attribuita asetticamente al “legislatore” la volontà di realizzare siffatto sistema, “evidentemente confidando che ciò conduca ad una più rapida definizione delle relative controversie”! (così nelle citate decisioni di legittimità nn. 60106084 e 6085).

Ma se il legislatore impone un sistema contrastante con le garanzie costituzionali, ad eliminare le norme illegittime provvede la Corte Costituzionale, se investita dai giudici remittenti. Questa volta non è stato minimamente considerato, neppure dalla giurisprudenza di legittimità, il più grave ed evidente corollario della preferita ricostruzione, e cioè che rendendo necessarie tre fasi processuali per ottenere il primo titolo esecutivo (ATP, giudizio di merito di mero accertamento sanitario, giudizio di merito di condanna) si sarebbero resi eccessivamente difficili - e di fatto negati - la tutela dei diritti e soprattutto il diritto all’assistenza, in clamoroso contrasto con gli art 24 e 38 della Carta fondamentale.

Eppure già da anni la Corte di Cassazione, in varie sentenze, anche a Sezioni Unite, aveva affermato a chiare lettere tanto l’inammissibilità di decisioni di mero accertamento, che l’incostituzionalità di un sistema che pretendesse due giudizi, uno di accertamento e l’altro di condanna, per una prestazione previdenziale o assistenziale. (Cfr ad es. Cass. Sez. Unite n. 529 del 2000). Nel 2014 invece nessun sospetto di incostituzionalità ha sfiorato la giurisprudenza mentre affermava che fossero necessari addirittura tre processi solo in primo grado – di cui due da definire con sentenza – per ottenere una provvidenza di “sopravvivenza”. Non sarebbe stato doveroso – ove davvero fosse stata ritenuta davvero e solo questa l’unica possibile interpretazione della norma - denunciarla d’illegittimità innanzi al Giudice delle Leggi? 

C’è da chiedersi, amaramente, se alla comunità degli Stati Europei che ci guardano con sempre maggiore severità per l’incapacità della giustizia italiana di tutelare i diritti in tempi ragionevoli, si possa additare il legislatore quale unico responsabile del probabile fallimento del nuovo processo previdenziale nato dall’art. 445 bis cpc.

E poiché sono ormai numerosi i casi di ATP espletati senza che sia stata proposta neppure una domanda amministrativa (ne è riprova il caso deciso da Cass. sent. n. 6010/2014), resta da comprendere come potrà giustificarsi il danno che lo Stato subirà in termini di costi complessivi che ricadranno sugli enti pubblici e sulla macchina giudiziaria, ormai da anni sempre più carente di risorse minime indispensabili.

Patrizia Morabito
Giudice del Lavoro a Reggio Calabria