Il giudice non si deve occupare della legittimità della procedura con cui si è disposta la revoca: deve sempre e solo accertare che sussista davvero il diritto alla prestazione.

Corte Suprema di Cassazione

Un'invalida, titolare di indennità di accompagnamento, era stata indagata per truffa in un procedimento penale in cui si ipotizzava il venir meno dei requisiti sanitari per beneficiare della prestazione.
Il Pubblico Ministero aveva disposto una consulenza medica da cui sarebbe emerso un miglioramento delle condizioni di salute dell'invalida, la quale avrebbe riacquistato la capacità di compiere autonomamente gli atti della vita quotidiana.
Sulla base di tale consulenza medica disposta dal P.M. nel predetto procedimento penale - poi conclusosi con l'archiviazione - l'Inps aveva disposto la sospensione e poi la revoca dell'indennità di accompagnamento.

L'invalida si era quindi rivolta al giudice lamentando l'illegittimità della procedura adottata dall'Inps per disporre la revoca della prestazione, la quale non era stata adottata all'esito dell'accertamento di verifica previsto dalla legge, su giudizio medico-legale espresso dalla competente commissione medica di verifica, alla presenza dei componenti richiesti dalla legge.

La Cassazione risponde richiamando il principio espresso da costante giurisprudenza di legittimità, secondo il quale:
in caso di revoca di una prestazione assistenziale, oggetto della controversia non sarebbe la legittimità dell'atto di revoca, ma la esistenza del diritto stesso alla prestazione.
Pertanto, la domanda giudiziale di ripristino della prestazione, al pari di quella concernente il diritto di ottenere per la prima volta prestazioni negate in sede amministrativa, non darebbe luogo ad un'impugnativa del provvedimento amministrativo di revoca, ma riguarderebbe il diritto del cittadino ad ottenere la tutela che la legge gli accorda.
Quindi, ad avviso della Suprema Corte, anche in caso di revoca il giudice sarebbe sempre chiamato ad accertare solo se sussista, o meno, il diritto stesso alla prestazione, verificandone le condizioni di esistenza alla stregua dei requisiti richiesti "ex lege", con riguardo alla legislazione vigente al momento della nuova domanda, poichè si tratterebbe "del riconoscimento di un nuovo diritto del tutto diverso, ancorché identico nel contenuto, da quello estinto per revoca".

Marco Aquilani, 04.11.2016

Il testo dell'atto

Corte di Cassazione, Sezione Lavoro, Sentenza 3 novembre 2016, n. 22319

Corte di Cassazione, Sezione Lavoro, Sentenza 3 novembre 2016, n. 22319

Revoca prestazione - legittimità della procedura di revoca - irrilevanza in sede giurisdizionale - oggetto della controversia è l'esistenza del diritto stesso alla prestazione.

Anche in caso di revoca di una prestazione in atto, oggetto della controversia giudiziale non è la legittimità dell'atto di revoca, ma la esistenza del diritto stesso alla prestazione.

Civile Sent. Sez. L  
Num. 22319  Anno 2016
Presidente: D'ANTONIO ENRICA
Relatore: DORONZO ADRIANA
Data pubblicazione: 03/11/2016

   
SENTENZA

sul ricorso 28322-2010 proposto da: V*** I*** , elettivamente domiciliata in ROMA, VIALE G. MAZZINI 113, presso lo studio dell'avvocato ROSALBA GRASSO, che la rappresenta e difende unitamente all'avvocato SALVATORE MORRONE, giusta delega in atti;

- ricorrente -

contro

I.N.P.S. - ISTITUTO NAZIONALE DELLA PREVIDENZA SOCIALE C.F. 80078750587, in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliato in ROMA, VIA CESARE BECCARIA 29, presso l'Avvocatura Centrale dell'Istituto, rappresentato e difeso dagli avvocati CLEMENTINA PULLI, ANTONELLA PATTERI e MAURO RICCI, giusta delega in atti;

- controricorrente -

nonchè contro

MINISTERO DELL'ECONOMIA E DELLE FINANZE C.F. 80415740580;

- intimato -

avverso la sentenza n. 720/2010 della CORTE D'APPELLO di TORINO, depositata il 16/07/2010 R.G.N. 13/2010; udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 06/07/2016 dal Consigliere Dott. ADRIANA DORONZO;
udito l'Avvocato ORONZO D'AGOSTINO per delega Avvocato ROSALBA GRASSO;
udito l'Avvocato CLEMENTINA PULLI;
udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. PAOLA MASTROBERARDINO che ha concluso per il rigetto del ricorso, (si associa all'opposizione sulla documentazione prodotta).

Svolgimento del processo

1. Con ricorso al Tribunale di Torino I*** V*** chiese che le fosse riconosciuto il diritto all'indennità di accompagnamento con decorrenza dal 1/4/2008, data in cui l'INPS aveva disposto la sospensione dell'erogazione della provvidenza per il venir meno dei requisiti sanitari)  così come accertato nel corso di un procedimento penale che la vedeva imputata per il reato di truffa aggravata ed in cui in cui era stata disposta una consulenza medica dal Pubblico Ministero.
2. Il Tribunale rigettò la domanda. Contro la sentenza la V*** propose appello e la Corte d'appello di Torino, con sentenza depositata in data 16 luglio 2010, lo ha accolto parzialmente, compensando le spese del giudizio di primo grado. Ha quindi condannato l'appellante al pagamento delle spese del giudizio d'appello.
3. La Corte territoriale ha osservato che dagli accertamenti compiuti dal consulente tecnico del Pubblico ministero era emerso un miglioramento delle condizioni di salute della ricorrente, la quale aveva recuperato la funzionalità respiratoria ed aveva pertanto riacquistato la capacità di compiere gli atti quotidiani della vita senza necessità di accompagnamento e di assistenza continua. Tale dato oggettivo non era stato contestato dalla ricorrente, a nulla rilevando che ella non avesse avuto contezza della consulenza né che l'Inps non avesse avviato un procedimento di revisione, sottoponendola a visita, dal momento che, quanto meno dall'avvio del giudizio e a seguito delle difese spiegate dall'Inps, ella era venuta a conoscenza delle risultanze della consulenza tecnica d'ufficio da cui era emersa la mancanza dei requisiti sanitari previsti per l'indennità di accompagnamento. Tale circostanza, tuttavia, giustificava la compensazione delle spese del giudizio di primo grado, non anche quelle dell'appello stante l'assoluta insufficienza dei motivi di gravame addotti.
4. Contro la sentenza, la V*** propone ricorso per cassazione sostenuto da due motivi, cui resiste l'Inps con controricorso. Il Ministero dell'economia e delle finanze non svolge attività difensiva. La V*** deposita memoria.

Motivi della decisione

A. Preliminarmente, deve darsi atto che, in sede di discussione orale, la parte ricorrente ha chiesto di produrre documentazione da cui si desumerebbe la sussistenza del suo diritto. Tale richiesta, conformemente alle conclusioni rassegnate dal Pubblico Ministero d'udienza, deve ritenersi inammissibile ai sensi dell'art. 372 cod.proc.civ., in mancanza di notificazione dei documenti, mediante elenco, all'altra parte. Deve infatti rilevarsi che l'art. 372 cod. proc. civ. consente che il deposito di documenti che riguardano l'ammissibilità, nonché la procedibilità o la proseguibilità del ricorso per cassazione o del controricorso, - inclusi quelli diretti ad evidenziare l'acquiescenza del ricorrente alla sentenza impugnata per comportamenti anteriori all'impugnazione (Cass., 29 febbraio 2016, n. 3934) - avvenga anche oltre il termine previsto dall'art. 369 dello stesso codice, ma richiede che del deposito eseguito la parte dia comunicazione all'altra notificandogli un elenco. Pertanto, poiché la notificazione costituisce uno specifico procedimento volto a realizzare la conoscenza legale del fatto che ne costituisce l'oggetto, ove essa sia stata omessa, la documentazione prodotta non può essere presa in considerazione (Cass., 10 luglio 2003, n. 10904; Cass., 16/05/2006, n.11474).
1. Con il primo motivo di ricorso, la ricorrente denuncia l'omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio, costituito dalle sue specifiche doglianze riguardanti il mancato rispetto dell'iter procedimentale previsto dalla legge per la sospensione e la revoca della prestazione assistenziale. La Corte infatti avrebbe dovuto motivare in ordine alla legittimità o meno dell'attività amministrativa.
2. Il secondo motivo è invece fondato sulla violazione e falsa applicazione di norme di diritto, specificamente indicate (D.L. 30 maggio 1988, n. 173; legge 15 ottobre 1990, n. 295 con i relativi decreti ministeriali; legge 2 dicembre 2005, n. 248; legge 8 agosto 1996, n. 425; legge 27 dicembre 1997, n.449; legge 23 dicembre 1998, n. 448; legge 24 novembre 2003, n. 326; legge 23 dicembre 1996, n. 662; legge 6 agosto 2008, n. 133, art. 80; D.L. 1 luglio 2009, n. 78, art. 20;D.M. 29 gennaio 2009, artt. 1  e ss.). Nell'illustrazione del motivo la parte traccia un excursus della disciplina e delle modalità procedimentali previste per l'accertamento e la verifica degli stati di invalidità, per concludere che il provvedimento di sospensione dell'erogazione di una prestazione assistenziale come quella in oggetto e la successiva revoca sono legittimi solo se conseguenti ad un accertamento di verifica condotto nel rispetto dell'iter procedimentale previsto dalla legge, a seguito di un giudizio medico-legale espresso dalla competente commissione medica di verifica e in presenza dei componenti richiesti dalla legge. Nel caso in esame, la sospensione e la revoca erano stati adottati in base ad una relazione di consulenza disposta da un pubblico ministero nell'ambito di un giudizio penale conclusosi con l'archiviazione, senza che ella fosse sottoposta a visita di verifica da parte delle competenti commissioni.
2. Entrambi i motivi, che si affrontano congiuntamente per l'evidente connessione che li lega, sono infondati.
3. E' principio ormai consolidato nella giurisprudenza di legittimità quello secondo cui, anche in caso di revoca di una prestazione in atto, oggetto della controversia non è la legittimità dell'atto di revoca, ma la esistenza del diritto stesso alla prestazione (Cass., 24 febbraio 2015, n. 3688; Cass., 20 febbraio 2009, n. 4254; Cass., 12 gennaio 2009, n. 392; Cass., 14 luglio 2004, n. 12998; Cass., 6 marzo 2004, n. 4634; Cass. 9 luglio 2003, n.10816). In particolare si è affermato che la domanda di ripristino della prestazione, al pari di quella concernente il diritto di ottenere per la prima volta prestazioni negate in sede amministrativa, non dà luogo ad un'impugnativa del provvedimento amministrativo di revoca, ma riguarda il diritto del cittadino ad ottenere la tutela che la legge gli accorda; conseguentemente, il giudice è chiamato ad accertare se sussista, o meno, il diritto alla prestazione, verificandone le condizioni di esistenza alla stregua dei requisiti richiesti "ex lege", con riguardo alla legislazione vigente al momento della nuova domanda, trattandosi del riconoscimento di un nuovo diritto del tutto diverso, ancorché identico nel contenuto, da quello estinto per revoca (Cass., n. 3688/2015, cit.).
B. Alla luce di questo indiscusso principio, appaiono inconferenti le doglianze mosse dalla ricorrente, le quali non attingono l'unica ratio decidendi, costituita dalla oggettiva carenza dei requisiti sanitari per godere della prestazione richiesta. Al riguardo, per completezza, deve osservarsi che il giudice è libero di porre a fondamento della propria decisione le risultanze di un procedimento penale, utilizzando come fonti le prove raccolte e gli elementi di fatto acquisiti in tale giudizio, purché il procedimento di formazione del proprio libero convincimento sia esplicitato nella motivazione della sentenza, attraverso l'indicazione degli elementi di prova e delle circostanze sui quali esso si fonda, non essendo sufficiente il generico richiamo alla pronuncia penale, che si tradurrebbe nella elusione del dovere di autonoma valutazione delle complessive risultanze probatorie e di conseguenza nel vizio di omessa motivazione (in tal senso, Cass., 27 aprile 2010, n. 10055).
C. Nella specie, la Corte ha adeguatamente motivato il suo convincimento, (pagg. 7 e 8 della sentenza d'appello), illustrando le ragioni tecniche che hanno indotto il consulente tecnico del pubblico ministero ad escludere la sussistenza del requisito sanitario necessario per l'indennità di accompagnamento e facendole proprie, dovendosi peraltro rilevare che in questa sede la censura mossa dalla ricorrente alla sentenza per vizio di motivazione ex art. 360, comma 1°, n. 5, c.p.c. non ha investito queste ragioni tecniche, bensì l'omesso esame da parte del giudice d'appello della questione inerente alla legittimità della procedura amministrativa seguita dall'istituto previdenziale per sospendere e revocare la prestazione.
D. In definitiva, il ricorso deve essere rigettato e la ricorrente deve essere condannata al pagamento delle spese del presente giudizio nei confronti del controricorrente, in difetto dell'autodichiarazione prevista dall'art. 152 disp. att. c.p.c., come modificato dalla legge n. n. 326/2003, applicabile al presente giudizio ratione temporis (essendo stato il ricorso introduttivo del giudizio depositato in data 11/12/2008, come si evince dalla sentenza impugnata). Nessun provvedimento sulle spese deve adottarsi nei confronti del Ministero intimato che non ha svolto attività difensiva.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento, in favore del controricorrente, delle spese del presente giudizio, liquidate in € 1.800,00, cui € 100,00 per esborsi, oltre al 15% per spese generali e altri accessori di legge. Nulla nei confronti della parte rimasta intimata.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio il 6 luglio 2016

Il Presidente Dott. Enrica d'Antonio
IL consigliere estensore Dott. Adriana Doronzo

Il Funzionario Giudiziario
Dott.ssa Donatella Coletta