Per la Cassazione, nelle controversie per prestazioni previdenziali, l’onere di dichiarare l’esatto valore della prestazione dedotta in giudizio, previsto a pena di inammissibilità dall’art. 152 disp. att. cod. proc. civ., sussiste solo per il ricorso introduttivo del giudizio di primo grado. (Cass. Ord. n. 12439/2013)

Corte di Cassazione, Sezione Lavoro, Ordinanza 21 maggio 2013, n. 12439

Corte di Cassazione, Sezione Lavoro, Ordinanza 21 maggio 2013, n. 12439

Controversie previdenziali – Onere di dichiarare l’esatto valore della prestazione dedotta in giudizio – Riferibilità solo al ricorso introduttivo del giudizio di primo grado

L'indicazione del valore effettivo e preciso di causa secondo la previsione dell’art. 152 disp. att. c.p.c. nel testo novellato dal d.l. n. 98/11, convertito in legge n. 111/11, è di onere riferito al solo ricorso introduttivo del giudizio e non anche a quelli concernenti i gradi successivi al primo. (Massima non ufficiale)

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE SESTA CIVILE

SOTTOSEZIONE L

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:                           

Dott. LA TERZA  Maura                               -  Presidente   -
Dott. IANNIELLO Antonio                             -  Consigliere  -
Dott. MANNA     Antonio                        -  rel. Consigliere  -
Dott. BLASUTTO  Daniela                             -  Consigliere  -
Dott. TRICOMI   Irene                               -  Consigliere  -
ha pronunciato la seguente:                                         

ordinanza 

sul ricorso 1545-2012 proposto da:
INPS - ISTITUTO NAZIONALE DELLA PREVIDENZA SOCIALE ((OMISSIS)) in persona   del   Presidente  e  legale  rappresentante  pro   tempore, elettivamente  domiciliato  in ROMA,  VIA  DELLA  FREZZA  17,  presso l'AVVOCATURA  CENTRALE DELL'ISTITUTO, rappresentato  e  difeso  dagli avvocati  CORETTI  Antonietta, VINCENZO  TRIOLO,  EMANUELE  DE  ROSE, VINCENZO STUMPO, giusta procura in calce ricorso;

- ricorrente -

contro


M.E., elettivamente domiciliata in  ROMA,  ****, presso lo studio dell'avvocato ****,  che la  rappresenta  e  difende unitamente all'avvocato ****, giusta mandato speciale in calce al controricorso;

- controricorrente -

avverso  la sentenza n. 6292/2010 della CORTE D'APPELLO di  BARI  del 14.12.2010, depositata il 05/01/2011;
udita  la relazione della causa svolta nella camera di consiglio  del 21/02/2013 dal Consigliere Relatore Dott. ANTONIO MANNA;
udito per il ricorrente l'Avvocato Emanuele De Rose che si riporta ai motivi del ricorso;
udito  per la controricorrente l'Avvocato **** (per  delega avv. *****) che si riporta agli scritti;
E'  presente  il  Procuratore Generale in persona del  Dott.  IGNAZIO PATRONE che si riporta alla relazione scritta. 

Svolgimento del processo e motivi della decisione

I – Il consigliere relatore nominato ai sensi dell’art. 377 c.p.c. ha depositato la seguente relazione ai sensi degli artt. 380-bis e 375 c.p.c.:

“1. – Con ricorso al Tribunale di Bari E. M., operaia agricola a tempo determinato, conveniva in giudizio l’INPS chiedendo che venisse accertato il proprio diritto alla liquidazione d’un maggior importo di trattamento di disoccupazione agricola che includesse, nella relativa base di calcolo, anche la voce denominata “quota di TFR “.

In riforma della sentenza di rigetto emessa in prime cure, la Corte d’appello di Bari, con pronuncia n. 6292/10, accoglieva la domanda di riliquidazione del trattamento di disoccupazione agricola, con inclusione nella base di calcolo della quota di TFR.

2. – Per la cassazione della pronuncia della Corte territoriale ricorre l’INPS, affidandosi a tre motivi.

2.1. -Parte intimata resiste con controricorso.

3. – Con il primo motivo di ricorso l’INPS si duole di violazione e falsa applicazione dell’art. 47 d.P.R. n. 639/70, nel testo risultante dalle successive modifiche, per avere la Corte territoriale negato l’applicabilità del regime di decadenza in esso previsto alle domande di riliquidazione di prestazioni previdenziali già riconosciute.

3.1. – Con il secondo e il terzo motivo di ricorso l’istituto lamenta violazione dell’art. 18 co. 18, di. n. 98/2011, convertito con modificazioni in legge n. 111/2011, nonché degli artt. 46, 51 e 55 del CCNL operai agricoli e florovivaisti del 10.7.2002 in relazione all’art. 6, co. 4, lett. a), dlgs. n. 314/97, e all’art. 3 d.l. 14.6.96 n. 318, convertito in legge 29.7.96 n. 402, nonché in relazione agli artt. 1362 e ss. ce, 2120 ce. e all’art. 4, commi 10 e 11, legge n. 297/82, censurando la sentenza per avere incluso, nella retribuzione da prendere a base per la liquidazione dell’indennità di disoccupazione agricola, anche la voce denominata “quota di TFR “.

3.2. – Preliminarmente va disattesa l’eccezione di inammissibilità del ricorso per cassazione sollevata da parte controricorrente per asserita erroneità del valore di causa indicato, atteso che il nuovo testo dell’art. 152 disp. att. c.p.c. prevede la sanzione dell’inammissibilità soltanto in caso di omessa (e non meramente erronea) indicazione del valore.

4. – Il primo motivo di ricorso è infondato.

Si premetta che l’originario testo dell’art. 47 d.P.R. 30.4.70 n. 639 stabiliva quanto segue: “Esauriti i ricorsi in via amministrativa, può essere proposta l’azione dinanzi all’autorità giudiziaria, ai sensi degli artt. 459 e ss. cod. proc. civ.. L’azione giudiziaria può essere proposta entro il termine di dieci anni dalla data di comunicazione della decisione definitiva del ricorso pronunziata dai competenti organi dell’istituto o dalla data di scadenza del termine stabilito per la pronunzia della decisione medesima, se trattasi di controversie in materia di trattamenti pensionistici.

L’azione giudiziaria può essere proposta entro il termine di cinque anni dalle date di cui al precedente comma se trattasi di controversie in materia di prestazioni a carico dell’assicurazione contro la tubercolosi e dell’assicurazione contro la disoccupazione involontaria “.

Tali termini erano stati ritenuti dalle S.U. di questa S.C. (Cass. S.U. 21.6.90 n. 6245) di decadenza, di tipo peraltro procedimentale, vale a dire finalizzata unicamente a delimitare l’efficacia temporale della condizione di procedibilità della domanda giudiziaria, rappresentata dall’attivazione e dall’esaurimento del procedimento amministrativo.

Col successivo art. 6 d.l. 29.3.91 n. 103, convertito con modificazioni in legge 1°.6.91 n. 166, ritenuto da Corte Cost. n. 246/92 di interpretazione autentica del cit. art. 47, venne poi stabilito:

“1 – I termini previsti dal D.P.R. 30 aprile 1970, n. 639, art. 47, commi 2 e 3 sono posti a pena di decadenza per l’esercizio del diritto alla prestazione previdenziale, la decadenza determina l’estinzione del diritto ai ratei pregressi delle prestazioni previdenziali e l’inammissibilità della relativa domanda giudiziale. In caso di mancata proposizione del ricorso amministrativo, i termini decorrono dall’insorgenza del diritto ai singoli ratei.

2 – Le disposizioni di cui al comma precedente hanno efficacia retroattiva, ma non si applicano ai processi che sono in corso alla data di entrata in vigore del presente decreto “.

Successivamente, con l’art. 4 di. 19.9.92 n. 384, i commi 2 e 3 del cit. art. 47 sono stati sostituiti dai seguenti:

“Per le controversie in materia di trattamenti pensionistici, l’azione giudiziaria può essere proposta, a pena di decadenza, entro il termine di tre anni dalla data di comunicazione della decisione del ricorso pronunziata dai competenti organi dell’istituto o dalla data di scadenza del termine stabilito per la pronunzia della predetta decisione ovvero dalla data di scadenza dei termini prescritti per l’esaurimento del procedimento amministrativo, computati a decorrere dalla data di presentazione della richiesta di prestazione. Per le controversie in materia di prestazioni della gestione di cui alla L. 9 marzo 1989, n. 88, art. 24 l’azione giudiziaria può essere proposta, a pena di decadenza, entro il termine di un anno dalle date di cui al precedente comma”.

L’art. 4, u.c. ha poi stabilito che le disposizioni indicate “non si applicano ai procedimenti istaurati anteriormente alla data di entrata in vigore del presente decreto ancora in corso alla medesima data “.

Infine, l’art. 38 co. 1, lett. d), del di. 6.7.2011 n. 98, convertito in legge n. 111/2011, ha aggiunto al citato art. 47 un ultimo comma, del seguente tenore: “Le decadenze previste dai commi che precedono si applicano anche alle azioni giudiziarie aventi ad oggetto l’adempimento di prestazioni riconosciute solo in parte o il pagamento di accessori del credito. In tal caso il termine di decadenza decorre dal riconoscimento parziale della prestazione ovvero dal pagamento della sorte”, precisando al quarto comma che “le disposizioni di cui al comma 1, lett. e) e d) si applicano anche ai giudizi pendenti in primo grado alla data di entrata in vigore del presente decreto “.

Tale essendo il quadro di riferimento normativo, da ultimo la giurisprudenza (cfr., ad es., Cass. 20.1.2010 n. 948 e 26.1.2010 n. 1580), sulla base di Cass. S.U. 29.5.09 n. 12720, che ribadisce le tesi della precedente Cass. S.U. 18.7.96 n. 6491) era, per quanto qui interessa e fino alla citata recente novella del 2011, nel senso dell’inapplicabilità della decadenza alle domande di adeguamento dì prestazioni previdenziali già riconosciute e liquidate solo parzialmente dall’ente previdenziale.

La cit. sentenza del 29.5.2009 n. 12720 aveva affermato che “La decadenza di cui al D.P.R. 30 aprile 1970, n. 639, art. 47 – come interpretato dal D.L. 29 marzo 1991, n. 103, art. 6, convertito, con modificazioni, nella L. 1 giugno 1991, n. 166 – non può trovare applicazione in tutti quei casi in cui la domanda giudiziale sia rivolta ad ottenere non già il riconoscimento del diritto alla prestazione previdenziale in sé considerata, ma solo l’adeguamento di detta prestazione già riconosciuta in un importo inferiore a quello dovuto, come avviene nei casi in cui l’Istituto previdenziale sia incorso in errori di calcolo o in errate interpretazioni della normativa legale o ne abbia disconosciuto una componente, nei quali casi la pretesa non soggiace ad altro limite che non sia quello della ordinaria prescrizione decennale “.

La questione era stata nuovamente rimessa dalla Sezione lavoro, con ordinanza interlocutoria 18.1.2011 n. 1071, alle S.U., sulla base del rilievo che l’interpretazione prevalente non appariva giustificata dal tenore letterale e dalla considerazione delle finalità della norma, riguardante ogni tipo di azione in materia di prestazioni previdenziali.

Intervenuta, tra l’ordinanza interlocutoria di rimessione alle S.U. della Corte e la data dell’udienza avanti a queste ultime, la citata novella di cui all’art. 38 comma 1, lett. d), di. 6.7.2011 n. 98, è stata quindi disposta la restituzione degli atti alla Sezione lavoro, in considerazione della necessità di valutare la persistenza del proposito di investire della questione le S.U., alla luce della valutazione dell’eventuale incidenza delle norme di legge citate sull’interpretazione dell’art. 47 vigente prima di essa.

Ciò premesso, non può non rilevarsi che la nuova disciplina, esprimendo il proposito del legislatore di modificare in materia, con una limitata efficacia retroattiva, la regola preesistente, quale consolidatasi per effetto delle pronuncia delle S. U. del 2009, conferma indirettamente la corrispondenza di quest’ultima all’originario contenuto dell’art. 47, nel testo vigente fino alla novella del 2011.

L’autorità del precedente arresto interpretativo delle S.U. della Corte e l’indiretta conferma della sua correttezza proveniente dallo stesso legislatore militano, in definitiva, per l’inapplicabilità del cit. art. 47, prima delle integrazioni apportate dall’art. 38 di. n. 98/2011, ali ‘ipotesi di richiesta di riliquidazione di prestazioni previdenziali solo parzialmente riconosciute e liquidate dall’ente previdenziale.

In tal senso si è da ultimo pronunciata questa S.C. (v. sentenze 8.5.12 n. 6959, 9.5.12 nn. 7083, 7084, 7085, 7086, 7087, 7088, 7089, 7090, 7095, 10.5.12 nn. 7123, 7124 ed altre ancora).

4.1. -Il secondo e il terzo motivo di ricorso – da esaminarsi congiuntamente perché connessi -sono manifestamente fondati, alla stregua della ormai consolidata giurisprudenza di questa S.C. (v., da ultimo, Cass. n. 202/2011 e numerose altre conformi alla precedente sentenza n. 10546/07), secondo cui, ai fini della liquidazione delle prestazioni temporanee in agricoltura, la nozione di retribuzione definita dalla contrattazione collettiva da porre a confronto con il salario medio convenzionale, ex art. 4 d.lgs. n. 146/97, non comprende il trattamento di fine rapporto.

4.1. – Tale principio merita di essere ribadito anche in questa sede. La voce denominata “quota di TFR” dai contratti collettivi vigenti a partire da quello del 27.11.1991 va esclusa dal computo dell’indennità di disoccupazione, in ragione della volontà espressa dalle parti stipulanti, volontà che è vietato disattendere ai sensi dell’art. 3 di. 14.6.96 n. 318, convertito con modificazioni in legge 29.7.96 n. 402, a norma del quale, agli effetti previdenziali, la retribuzione dovuta in base agli accordi collettivi non può essere individuata in difformità rispetto a quanto definito negli accordi stessi.

4.2. – La summenzionata giurisprudenza di questa S.C. ha, poi, trovato esplicito avallo nel di. 6.7.2011 n. 98, convertito, con modificazioni, in legge 15.7.2011 n. Ili, contenente all’art. 18, comma 18, una norma di interpretazione autentica dell’art. 4 d.lgs. 16.4.97 n. 146, in forza del quale detta previsione normativa si interpreta nel senso che la retribuzione utile per il calcolo delle prestazioni temporanee in favore degli operai agricoli a tempo determinato non è comprensiva della voce relativa al trattamento di fine rapporto, comunque denominato dalla contrattazione collettiva.

5. – Per tutto quanto sopra considerato, si

PROPONE

l’accoglimento, con ordinanza ai sensi dell’art. 375 n. 5 c.p.c, del secondo e del terzo motivo di ricorso e il rigetto del primo”.

II – Ritiene questa Corte che le considerazioni svolte dal relatore siano del tutto condivisibili, siccome coerenti alla consolidata giurisprudenza di legittimità in materia e non scalfite dalla memoria ex art. 378 c.p.c. depositata dalla ricorrente.

A tale ultimo riguardo deve disattendersi l’eccezione di inammissibilità del ricorso che la M. ha sollevato in relazione alla mancata indicazione, nel ricorso per cassazione proposto dall’INPS, del valore effettivo e preciso di causa secondo la previsione dell’art. 152 disp. att. c.p.c. nel testo novellato dal d.l. n. 98/11, convertito in legge n. 111/11, che al previgente testo normativo ha aggiunto il seguente periodo: “A tal fine la parte ricorrente, a pena di inammissibilità del ricorso, formula apposita dichiarazione del valore della prestazione dedotta in giudizio, quantificandone l’importo nelle conclusioni dell’atto introduttivo.”.

Contrariamente a quanto suppone la controricorrente, si tratta di onere riferito al solo ricorso introduttivo del giudizio e non anche a quelli concernenti i gradi successivi al primo: ciò è reso evidente dalla lettura del citato periodo in chiave a quello che immediatamente lo precede (che a sua volta era stato inserito in occasione della precedente novella dell’art. 152 disp. att. c.p.c, realizzata con l’art. 52 co. 6° legge n. 69/09), che così recita: “Le spese, competenze ed onorari liquidati dal giudice nei giudizi per prestazioni previdenziali non possono superare il valore della prestazione dedotta in giudizio”.

Quest’ultima disposizione, col contenimento delle spese di lite in misura non superiore al valore della prestazione previdenziale dedotta in giudizio, mirava a deflazionare l’accesso alla tutela giudiziaria e a prevenire sostanziali abusi del processo, non di rado strumentalizzato al fine di ottenere importi per spese legali superiori al valore della controversia, tanto che in tali evenienze l’interesse alla lite – di fatto – non risiedeva più nella prestazione previdenziale in sé (magari di ammontare irrisorio), ma nelle (maggiori) spese conseguibili all’esito di causa ex art. 91 co. 1° c.p.c.

Tale rimedio risultava, però, monco senza la contestuale previsione dell’onere, per l’attore, di dichiarare l’esatto valore della prestazione dedotta in giudizio, quantificandone l’importo nelle conclusioni dell’atto introduttivo di lite; la lacuna è stata, dunque, colmata con l’aggiunta – nel corpo del cit. art. 152 disp. att. c.p.c. – di un ultimo periodo, perfettamente in chiave al precedente (come dimostra l’incipit “A tal fine …”), che ha reso immediatamente verificabile da parte del giudice l’esatto ammontare del valore di causa e, in tal modo, il limite massimo delle spese liquidabili all’esito del giudizio.

In conclusione, ribadita l’ammissibilità del ricorso dell’INPS, nel caso in esame ricorre con ogni evidenza il presupposto dell’art. 375 n. 5 c.p.c. per la definizione camerale del processo.

Ili – Conseguentemente, rigettato il primo motivo, vanno accolti il secondo e il terzo, con cassazione della sentenza impugnata in relazione ai motivi accolti. Decidendo nel merito ex art. 384 co. 2° c.p.c. non essendo necessari ulteriori accertamenti di fatto, la Corte rigetta la domanda di inclusione della quota di TFR nell’indennità di disoccupazione agricola.

IV – Le spese dell’intero giudizio si compensano per intero fra le parti, attesa la problematicità della materia del contendere.

P.Q.M.

La Corte,
rigetta il primo motivo di ricorso, accoglie il secondo e il terzo, cassa la sentenza impugnata in relazione ai motivi accolti e, decidendo nel merito, rigetta la domanda di inclusione della quota di TFR nell’indennità di disoccupazione agricola. Compensa le spese dell’intero giudizio.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio del 21.2.13.

Il Presidente
Dott.ssa Maura La Terza

Depositato in cancelleria
oggi 21 MAG: 2013